Carlo Cerini è un imprenditore cinquantenne pieno di energia che vuole continuare a fare l’imprenditore anche in futuro. Ha un’officina meccanica a Rescaldina, vicino a Milano, ereditata dal padre e nella quale lavora anche il figlio. Producono macchine utensili, presse di vario tipo dal prezzo medio che va dai 25 mila ai 300 mila euro.



Esportano molto, hanno clienti importanti: per esempio, in Francia servono la Michelin. L’azienda ha 12 dipendenti diretti che fino a una quindicina di anni fa erano 35. Nel 2008 ha fatturato 2 milioni di euro. Quest’anno non è sicuro di arrivare al milione. Dice: «Io sento che sto diventando ogni giorno più povero, eppure lavoro come sempre, più di sempre. E non mi do per vinto. Tengo duro».



La sua è una storia come tante di piccoli industriali, di Brambilla alle prese con la grande crisi scoppiata nel 2008 e che concretamente, malgrado segnali statistici incoraggianti, nelle fabbriche, nei capannoni non è ancora finita.

Se gli si chiede quali sono le cause della quasi asfissia cui sembra condannato anche questo settore delle macchine utensili (strategico perché ha un eccellente contenuto tecnologico) incomincia raccontando che cosa è successo durante l’ultima edizione dell’Emo, la rassegna del settore che si è tenuta a Milano agli inizi di ottobre. Tira fuori da una cartella il catalogo degli espositori e aggiunge: «Almeno il 50% di tutti questi non sono produttori, ma commercianti, importatori, persone che fanno un po’ di maquillage alle macchine prodotte da altri e le mettono sul mercato con il loro nome, il loro marchio. E sa come e perché succede?».



No, non lo so. Allora Cerini spiega raccontando quello che è capitato proprio a lui durante questa Emo dell’ottobre scorso. È arrivato al suo stand un cinese che si è messo a studiare le sue macchine, guardandole da tutte le parti: un esame accurato. Alla fine ha preso il listino prezzi e si è presentato a Cerini: «Sono nel suo stesso settore. Nella mia fabbrica in Cina posso realizzare presse come le sue e consegnargliele nel porto di Genova a un prezzo del 60% più basso del suo. Mi dia i suoi disegni e io le faccio. Lei le prende, le modifica un po’ per renderle più simili ai suoi modelli tradizionali, più Made in Italy, ci mette il suo marchio che è affermato in Italia e in Europa e le vende ai suoi clienti abituali. E magari ne conquista anche dei nuovi. La differenza che riesce a spuntare, è sua».

Cerini ha rifiutato l’offerta. Ma lo stesso signore cinese ha fatto l’identica proposta ad altri suoi colleghi industriali, che sicuramente l’hanno accettata. Perché è così che succede da anni. Gli imprenditori diventano semplici commercianti, smantellano le fabbriche, licenziano i dipendenti e tengono solo quelli che servono per fare alcune modifiche e la manutenzione.

E così guadagnano di più, correndo meno rischi e lavorando di meno. Intanto, con questo sistema, i cinesi conquistano quote di mercato, che sarà poi impossibile recuperare. E lo fanno non solo importando macchinari dalla Cina: «Da un po’ di tempo vanno a fabbricarli anche in Africa perché costa addirittura meno che a casa loro. E tutta questa roba arriva da noi».

«Tutta questa roba», come dice lui, ha i livelli di qualità e di sicurezza imposti dalle normative? No, non li ha. Ma nessuno fa i controlli. L’Ucimu (Unione costruttori italiani macchine utensili), secondo Cerini, non serve assolutamente a nulla: «Il marchio Ucimu dovrebbe garantire uno standard di qualità. Ma ormai lo si mette a qualsiasi prodotto, da qualunque parte arrivi, e nessuno si interessa di fare i controlli».

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Lo stesso discorso vale per i controlli di sicurezza, questi pubblici, che andrebbero fatti per verificare che le macchine rispettino le normative europee che in materia sono rigide. «Ma sono controlli che nessuno fa mai – aggiunge Cerini -. Si fanno solo a posteriori, quando ci scappa l’incidente».

 

D’altra parte il settore è lasciato così allo sbando un po’ da tutti. Ci sarebbe bisogno di interventi specifici, mirati su alcuni problemi, e a volte Cerini prova a sollecitarli. Deve usare una tecnica nella quale si è specializzato: l’agguato agli uffici di via Molise 3 a Roma, sede del ministero dello Sviluppo (ex industria).

 

«Non bisogna chiedere appuntamenti, cercare contatti tramite segretarie perché i funzionari, i dirigenti scappano, non vogliono riceverti – dice -. E allora bisogna coglierli di sorpresa. L’ora migliore è verso le 13,30, quando si preparano alla pausa pranzo e si sente uno straordinario odorino di sugo nei corridoi. Se uno arriva in quei frangenti normalmente riesce ad aver un colloquio di qualche minuto: viene ricevuto e ascoltato, basta che faccia in fretta, che non sottragga tempo allo spaghetto che aspetta».

 

Il rapporto con il pubblico è difficile anche sotto il profilo fiscale. Un esempio: c’è da tempo un forte calo degli ordini, delle commesse perché non ci sono soldi per pagare i macchinari, le presse e le banche non danno credito. Allora Cerini ha studiato un sistema alternativo: «A molti clienti, soprattutto i piccoli, non vendo più le macchine, ma le do in affitto con contratti di locazione di 18-24 mesi. Alla fine le vendo, ovviamente al prezzo dell’usato».

 

La formula ha funzionato, ha portato nuovo lavoro ma, ovviamente, ha provocato un forte calo del fatturato perché i canoni non hanno gli stessi valori delle vendite. E questo ha suscitato i sospetti dell’Agenzia delle entrate che applica i famosi studi di settore. Conclusione: Cerini adesso ha aperto anche questo fronte e dice di non sapere se siano proprio i cinesi a procurargli i guai più seri.

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