Certo, l’Italia si avvia ad uscire dalla recessione, come titola il Corriere della Sera. Ma non ha torto Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, a sostenere che il peggio deve ancora venire. La contraddizione è solo apparente: il calabrone italiano, negli ultimi 15 mesi, ha sostenuto uno sforzo enorme, quasi innaturale, per non precipitare al suolo. Il risultato non è stato disprezzabile. Tra il luglio del 2008 e il giugno del 2009 la bilancia commerciale italiana ha fatto registrare un passivo di 8 miliardi di euro, assai di meno di quanto accusato dal Regno Unito (102 miliardi) ma anche dalla Francia (65 miliardi).



A tenere in piedi la baracca, al solito, è stata l’industria manifatturiera che, nonostante la crisi violenta, ha generato un surplus di 45 miliardi. Questa capacità di resistenza sui mercati, però, non deve far dimenticare che, rispetto all’aprile del 2008, l’indice della produzione industriale ha perduto il 25 per cento circa: di questo passo, sarà difficile risalire ai livelli iniziali prima del 2012. Tale frana non si è ripercossa, per il momento, sull’occupazione che finora è diminuita molto meno del Pil. Lo stesso vale per i consumi, che hanno potuto far leva sulla solidità del risparmio delle famiglie, assai meno indebitate che in altri Paesi avanzati. Nello tesso periodo anche i conti pubblici hanno evitato la catastrofe. È vero che il debito pubblico complessivo è cresciuto di 139 miliardi mentre nello stesso periodo i contribuenti hanno versato 9,2 miliardi in meno al fisco, ovvero il 3,3 per cento in meno rispetto a quanto raccolto un anno prima.



Ma al di là delle apparenze, anche quest’ultimo dato offre però motivi di relativo ottimismo se si dà uno sguardo in casa altrui. Da gennaio ad agosto (manca ancora il dato comparativo di settembre) le entrate fiscali tedesche hanno registrato un calo del 5 per cento abbondante, in Francia del 21 per cento. Assai consistente la frana in Gran Bretagna (-12,5 per cento) e nel grande malato d’Europa, la Spagna, dove, per dare una misura della crisi, basti dire che le entrate Iva sono crollate del 38 per cento.

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Non è il caso di cantar vittoria, viste le dimensioni del debito pubblico. Ma la progressione dell’indebitamento è molto inferiore a quella di altri Paesi: da un rapporto debito/Pil di 103,5 punti nel 2007 a quota 117,8 nel 2011 per effetto del Pil debole più che delle spese, contro un balzo di 32 punti negli Usa già nel 2010 e di 44 punti in Gran Bretagna. Non solo. Anche grazie alla solidità del risparmio delle famiglie, il rating del Bel Paese tiene, mentre si assottiglia la forbice tra Btp e Bund, il vero termometro della fiducia dei mercati.

Insomma, il calabrone se l’è cavata. Ma è stanco e stressato. Il rischio è che la macchina produttiva italiana vada in tilt proprio ora, quando i cenni di ripresina internazionale si vanno facendo più chiari e forti, con implicazioni positive per le grandi economie export oriented: la Germania, che tra l’altro può contare su una robusta politica di incentivi industriali; il Giappone, cresciuto nel terzo trimestre ad una velocità doppia di quella italiana che, nonostante il forte apprezzamento dello yen, può contare sul robusto aumento della domanda cinese. E l’Italia? A leggere i tanti Sos in arrivo dalle piccole imprese che non riescono a far fronte ai pagamenti dei fornitori per i ritardi nei pagamenti delle fatture, si ha la sensazione che il fenomeno del credit crunch morda oggi più di ieri, nelle fasi iniziali della ripresa internazionale, quando le aziende vorrebbero ricominciare ad investire riemergendo dall’apnea dei mesi passati.

Il rischio, quindi, è che la mancanza di credito possa far svanire le possibilità di agganciare la ripresa, già complicata dalla rivalutazione dell’euro sul dollaro e sul renminbi. Il calabrone rischia di cadere proprio ora quando i venti potrebbero dare un aiuto. Il possibile rimedio? L’elenco è lungo. Ma è il caso di rilevare che la crisi ha colpito di più le imprese, vittime del calo del commercio mondiale, che i consumi delle famiglie. E così, accanto al sostegno degli ammortizzatori sociali occorre stimolare il rafforzamento del capitale delle imprese, attivando iniziative di private equity e sfruttando la spinta dello scudo. Ma prima ancora sarebbe opportuno accelerare i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, a vantaggio dell’economia locale, quella che può garantire i risultati più rapidi in materia di tenuta dell’occupazione.