I conti pubblici soffrono, i dati della produzione industriale sono timidi ma incoraggianti. I tanti professionisti e piccoli imprenditori, le “formiche” che tengono in piedi il paese – quelli di cui Ferruccio De Bortoli ha preso anche di recente le difese – fremono perché la crisi la sentono eccome, e sarebbero i primi a voler far sparire l’Irap. Ma contro la crisi la risposta migliore rimane quella dell’aggregazione, uscire dal guscio per incontrare partners, altri imprenditori con cui dialogare, stabilire rapporti, trovare punti di incontro e di interesse. Dal 23 al 25 novembre la Compagnia delle opere organizza la quinta edizione del Matching, un evento unico nel suo genere pensato per incrociare le opportunità d’affari. È anche pensando al Matching che l’economista Alberto Quadrio Curzio rilancia la sua proposta: «le forme associative di impresa e il sistema creditizio e finanziario potrebbero varare dei fondi che a loro volta favoriscano, con vantaggi fiscali, l’aggregazione di imprese». E due vecchi “antagonisti” come Giuseppe Guzzetti e il ministro Tremonti sarebbero d’accordo.



Il dibattito sulla crisi e sulle imprese si è focalizzato sulla questione fiscale, con il taglio, poi rinviato, dell’Irap. È stata l’ennesima riforma mancata?

Comprendo bene le critiche a quest’imposta che colpisce duramente il costo del lavoro, ma credo che oggi l’abolizione dell’Irap sia impossibile perché creerebbe una voragine da 40 miliardi di euro nelle entrate. Ne conseguirebbe una crisi insostenibile per ciò che riguarda il finanziamento delle sanità regionali. Detto questo, gli accorgimenti che il governo pensa di introdurre, di alleggerimento dell’Irap sulle società che sono in perdita, è una decisione saggia e mi pare anche fattibile.



Non pensa che un taglio dell’imposta avrebbe dato subito ossigeno al sistema produttivo?

 

In teoria si ma poi il rating dell’Italia peggiorerebbe e con ciò l’onere degli interessi sul debito pubblico. Solo il giorno in cui l’economia italiana, europea e internazionale tornerà ad un regime normale si dovrà ridurre drasticamente l’Irap sostituendola con altre imposte più ragionevoli.

Non crede che parlando di fisco ci siamo dimenticati di focalizzare l’attenzione sull’export e sulle misure che potrebbero aiutare la proiezione internazionale delle nostre imprese?

L’export in certa misura dipende da noi, ma in certa misura dipende dalla ripresa nei paesi verso i quali noi esportiamo. Per questo vedo bene la ripresa tedesca, che rappresenta un volano importante soprattutto per il nostro settore meccanico. Per quanto riguarda l’export dei beni di consumo e di quelle fasce del made in Italy che rientrano nei beni di consumo, credo che una particolare azione promozionale verso le aree ad alto potere d’acquisto vada sostenuta con vigore, da parte delle associazioni imprenditoriali, dell’Ice e di tutti i soggetti interessati.



Le nostre imprese, soprattutto quelle piccole e medie, fanno gran fatica a fare sistema, ad aggregarsi per essere più competitive. Lei come valuta un’iniziativa come quella del Matching organizzato da Compagnia delle Opere?

È un’ottima iniziativa, alla quale auguro ogni successo e che andrebbe potenziata. Potrebbe trovare un naturale punto di incontro con l’idea che ho più volte avanzato e che è stata avanzata  sia da Giuseppe Guzzetti che dal ministro Tremonti, cioè di varare dei fondi incardinati sul sistema bancario e sulle forme associative di impresa. Queste ultime  sono le uniche ad avere una conoscenza diretta e non virtuale del mondo delle imprese.

Può spiegare meglio questa sua proposta?

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Le forme associative di impresa e il sistema creditizio e finanziario potrebbero varare dei fondi che a loro volta favoriscano, con vantaggi fiscali, l’aggregazione di imprese. Sarebbe in linea con il principio di sussidiarietà, a noi così caro, che il Matching non solo propone ma mette in atto, perché  favorisce il formarsi di reti – e perché no, col tempo di imprese un po’ più grandi – senza costringere gli imprenditori piccoli a sacrificarsi, ma incentivandoli ad entrare in forme di aggregazione che li vedono più attivi e partecipi.

 

Sta dicendo in pratica che le imprese hanno bisogno di più capitalizzazione…

 

In questa fase è un problema cruciale. Ma occorre farlo con capitale di rischio, non con capitale di credito.

 

Con questo lei ammette che la stretta del credito c’è ed è ancora forte.

 

Il problema è che al di là della concessione del credito, le imprese hanno bisogno di patrimonio per fare investimenti di medio lungo termine, che col credito circolante non si fanno. E meno che mai col circolante si fa aggregazione d’impresa.

 

Dunque, semplificando: banche e finanza mettono i soldi, il fisco fissa le deduzioni e le detrazioni fiscali, e le associazioni mettono il loro patrimonio di conoscenze.

 

Sì, perché conoscere le peculiarità di quel mondo è un valore aggiunto importante. Per intenderci: un’associazione di  impresa sa bene che quelle dieci imprese, e non altre, devono aggregarsi altrimenti non ce la fanno. Lo sa molto meglio delle banche, per non parlare di chi decide la politica economica. Non è il suo compito.

 

Parlare di pmi da sempre vuol dire parlare di connettività: di capitale umano, di capitale finanziario e di impresa specifica. Non c’è un deficit di capitale morale?

 

Nel contesto dell’economia di mercato, convenienza e concorrenza hanno una natura irrinunciabile: l’impresa deve fare profitto nella correttezza richiesta dalle norme di legge e dalla dinamica interna che la caratterizza. Il profitto non è una deviazione etica dell’imprenditore, ma uno scopo dell’impresa. Ciò che distingue un imprenditore vero da un imprenditore rentier e che il primo cerca il profitto anche per far crescere tutta l’impresa, risorse umane comprese. E questo perché vede nell’impresa un’opera creativa, materiale e spirituale. Naturalmente c’è anche chi, in modo individualistico, mira solo ad un arricchimento personale,al più presto e nei modi più vari: non è l’esempio di imprenditore che ammiro ma questo fa parte degli accadimenti.

 

E il medio imprenditore italiano secondo lei com’è orientato?

 

Sono convinto che la maggioranza degli imprenditori italiani siano più del primo tipo. Questo per quanto riguarda l’impresa e il profitto e l’operatività sui mercati dove sanno stare benissimo. Ma per tornare alla sua domanda sul surplus di capitale morale, non si può tacere sul ruolo dell’impresa sociale, di cui la nostra tradizione è così ricca. L’impresa sociale non crea profitto, ma serve ugualmente quella coesione sociale senza la quale, a mio avviso, un’economia non funziona.

 

Qual è il primo nemico oggi di questa coesione sociale? Un fattore immateriale, ideologico?

 

Credo che abbiamo recuperato molto terreno rispetto al liberismo libertario, che attribuisce valore zero al sociale e alla coesione sociale, in quanto vede solo la polarizzazione tra stato e mercato come due soggetti l’uno con regole ferree – ma la crisi ha smentito la loro solidità -, l’altro orientato fortemente ad una massimizzazione di tipo prettamente individualistico. Ma ci sono segni confortanti di un diverso bilanciamento: oggi, per esempio, si parla bene delle fondazioni bancarie, che solo fino a poco tempo fa erano additate come organismi auto-referenziali e quindi non meritocratici, non rappresentativi, non competitivi. Adesso ci si accorge, invece, che sono ad un tempo investitori che sanno guardare al lungo periodo e erogatori di beni sociali che hanno un gran valore.