Scelgo le parole di Emmanuel Levinas, colui che più di molti altri nel terribile Novecento, forgiato nell’esperienza di un campo di concentramento nazista dal quale fu l’unico della sua famiglia a sopravvivere, ispirò l’intera sua riflessione partendo dalla Bibbia alla comprensione e all’esperienza dell’Altro. Per lui la filosofia stessa era conoscenza dell’amore e non amore per la conoscenza, e l’etica stessa era esperienza della conoscenza dell’Altro.



Scriveva Levinas: “nell’avvenimento dello scambio – nel quale il denaro si inserisce e comincia a svolgere quel ruolo di mediatore al quale non smette poi di riferirsi – l’uomo fa ricorso all’altro uomo nell’incontro, che non è semplice giustapposizione di individuo e individuo, né violenza di una conquista o percezione di un oggetto che si offra alla sua verità, ma un faccia-a-faccia con l’altro uomo che, già silenziosamente, in modo preciso l’interpella e al quale dà risposta: dichiarazione di pace nello shalom o saluto augurale nel buongiorno”. “Nel denaro – proseguiva – non può essere dimenticata questa prossimità interumana, trascendenza e socialità che già l’attraversa, da unico a unico, da straniero a straniero, transazione da cui ogni denaro procede e ogni denaro rianima”.



Levinas scriveva queste parole nel suo L’Argent, proprio nei mesi in cui vent’anni fa cadeva il Muro di Berlino, e il mondo diventava “uno” nella globalizzazione. Mi ha sempre molto colpito, la modalità limpida e tagliente con la quale il grande filosofo ebreo affronta il problema essenziale per me liberista e marginalista austriaco, il problema dell’individuo come attore economico: anche per Levinas esso rappresenta il problema centrale.
Ma nel senso che innanzitutto esso chiede costantemente una conversione.
 

A distanza di un anno mezzo dai primi segni della crisi finanziaria che ci ha portato poi alla più grave crisi dell’economia reale nel secondo dopoguerra, mentre siamo alle prese con la dimensione totalmente irrisolta della finanziarizzazione dell’economia e della spersonalizzazione cogente in cui la finanza per la finanza si risolve, mi sembra che Levinas costituisca il punto dal quale ripartire.



 

Sicuramente non è così per coloro che continuano nei grandi intermediari finanziari a realizzare il più dei loro utili da attività frenetiche di trading book, invece che dalle ordinarie attività di banca commerciale, attraverso l’implementazione di software e algoritmi matematici gestiti in automatico, sempre più raffinati e capaci di realizzare miliardi di utili in un trimestre con decine di migliaia di ordini di acquisto e vendita nella dimensione temporale di qualche millisecondo (si chiama high frequency trading, e pazzescamente Goldman Sachs vi fa più ricorso oggi che prima del fallimento di Lehman).
Ma proprio perché a distanza di tanto tempo e dopo migliaia di convegni sul ritorno a una finanza per l’economia reale in realtà non è cambiato assolutamente niente nelle regole e nei princìpi, né Oltreoceano né qui da noi, a maggior ragione non ci dobbiamo tirare indietro dal coraggio e dall’esempio di una testimonianza diversa.

 

Personalmente non ho avuto molto successo, nel battere l’Italia in decine e decine di assemblee di imprenditori, chiamando aziende e banche a condividere insieme una diversa teoria dello sconto finanziario, basata sul capitale umano invece che sui soli rating patrimoniali. Dopo gli applausi di rito, nessuno o quasi che io sappia ci ha provato per davvero, a elaborare attivi patrimoniali condivisi per filiera nei quali il capitale umano giocasse un ruolo centrale, sui quali incardinare una diversa richiesta di capitale di rischio per ricapitalizzarsi, di debito per aver garanzia di continuità nel conto economico, di capacità impositiva per un consolidato fiscale capace di divenire – coi tempi che corrono, e il rischio di discontinuità aziendale che molti correranno col bilancio 2009 – un vero e proprio concordato fiscale.

 

 

Eppure, per chi ha studiato economia, è dai tempi di Simmel e della sua Filosofia del denaro – 109 anni fa! – che sappiamo come il rischio da cui guardarsi sia esattamente quello di una modernità caratterizzata dal trionfo dello strumentalismo e dal venir meno di ogni scopo. Il successo del denaro significherebbe proprio lo smarrimento di ogni significato e obiettivo. “Mentre il denaro è privo di ogni valore e di ogni senso, mentre non è che un mezzo in vista dello scambio e della compensazione dei valori, esso è diventato per la maggior parte degli uomini il fine di tutti i fini”, scriveva Simmel. Egli dava torto a Marx che, nel suo scritto “Sulla questione ebraica” del 1844, asseriva che “nell’economia capitalistica il denaro è il valore universale, per sé costituito, di tutte le cose. Esso ha perciò spogliato il mondo intero, il mondo dell’uomo e della natura, del loro valore peculiare”. Di qui, il profeta del comunismo collettivista che ancor oggi in tanti elogiano deduceva orrendamente che “il Dio degli Ebrei si è mondanizzato, è divenuto un Dio mondano”.
Naturalmente, Marx usava le minuscole.

 

Per una volta, non ho preferito parlare di economia, ma di filosofia.

 

Prendetela se volete come una manifestazione di stanchezza, dopo che ogni giorno da un anno e mezzo tento di difendere ciò che mi sta a cuore dall’accusa di aver provocato la crisi. No. Noi che crediamo nella persona e non nello Stato come attore essenziale dell’economia, del lavoro e dello scambio, noi non siamo responsabili né delle scelte errate del regolatore monetario americano, né della cattura del regolatore finanziario americano da parte del big business. Noi non siamo responsabili di ciò da cui è derivata la crisi che ci colpisce tanto duramente. Ed è invece a noi che tocca, coi fatti e non solo con la filosofia, dimostrare che un’altra economia è possibile.
Non statalista, e contemporanemante in nulla simile al persistere dell’asimmetria informativa e del sostegno unilaterale alle grandi banche in cui sembra risolversi per molti la grande paura del 2008-2009.

 

Centinaia di milioni di esseri umani attendono ancora di essere strappati alla fame, e possono avere dalle nostre opere la chiave per entrare in un mondo fatto di maggior benessere e dignità. Tuttavia, ammetto l’impazienza. A volte vorrei rotture più profonde su questi valori, nel nostro Paese e in tutto l’Occidente. Meno finte convergenze di maniera, più denunce di chi continua esattamente come prima. Proprio per questo la Cdo deve raddoppiare i suoi sforzi.

L’Uomo che ci sta a cuore deve vivere nella grandezza di ciò a cui dobbiamo sentirci ogni giorno chiamati.