Il presidente di Intesa Sanpaolo ha tenuto a settembre una lectio in Vaticano. L’intervento di Antonio Quaglio, caporedattore centrale de Il Sole 24 Ore ne analizza i passaggi principali e la grande portata per il mondo finanzario.
La crisi globale non è stata un incidente tecnico – grave ma rimediabile nella sfera circoscritta dell’economia – ma l’implosione di un capitalismo anti-umano, che può degenerare ulteriormente nel dispotismo. E non è affatto finita, la Grande Crisi, anzi: sta cominciando ora. Di più: sarebbe un errore impedire che la crisi prenda forma nelle vite e nelle coscienze scosse delle persone e in una nuova percezione del “bene (o del male) comune” nel cuore profondo delle società.
Sarebbe contro gli interessi veri di una ripresa (ricostruzione) dell’economia impedire la maturazione di una “crisis” vera, di un autentico discernimento culturale (e quindi etico-politico) del collasso dei mercati finanziari e della più grave recessione del dopoguerra. I G20 riuniti in permanenza, le terapie puramente economiciste di matrice tecnocratica, la corsa alla ri-regolazione tout court, non approderanno a nulla senza una critica radicale (e dall’interno) della cultura liberale dominante nell’ultimo quarto di secolo: senza una rielaborazione di categorie come “democrazia economica” o “meritocrazia”.
E mai come in questo momento assume valore di alta sussidiarietà il pensiero-annuncio cattolico in un mondo disorientato: perché questo è il significato ultimo della Caritas in veritate, l’enciclica con cui Papa Benedetto XVI ha voluto tenere accesa la fiaccola della Centesimus annus di Giovanni Paolo II, ma anche l’illuminante Populorum progressio, punto fermo della dottrina sociale firmato da Paolo VI all’indomani del Concilio.
Ed è da qui, dalle tre grandi encicliche sociali contemporanee lette assieme, che ha tratto ispirazione Giovanni Bazoli: banchiere, giurista, intellettuale cattolico sempre d’eccellenza, sempre di frontiera. È stato suo (già nella primavera 2007, a crisi non ancora deflagrata) l’allarme – accolto da più di una polemica – sulla riduzione delle banche a semplici “money making machines”, esposte a rischi tanto più alti quanto minore era via via la loro sensibilità strategica per gli interessi generali dell’economia..
A settembre, il presidente di Intesa Sanpaolo è stato invitato dalla Santa Sede a tenere una “lectio” ai vescovi neo-ordinati nel mondo. Quelle riflessioni sugli sbocchi della crisi economico-finanziaria, riordinate, hanno visto la luce significativamente sulle pagine domenicali di Avvenire (il quotidiano della Chiesa italiana) e all’indomani della visita di Benedetto XVI a Brescia: un omaggio dichiarato alla memoria di Papa Montini, al cui magistero personale Bazoli si è formato. È un testo denso, che merita una lettura integrale, che certamente è destinato ad aprire un dibattito: su almeno tre questioni, ad avviso di chi scrive questi brevi appunti.
La prima è la “sapientia” dei cattolici e della Chiesa nel l’allargare lo sguardo della ragione sulla realtà economico-sociale. La Caritas in veritate, nel pensiero di Bazoli, produce la massima autorevolezza perché la Chiesa è da oltre un secolo un’osservatrice acuta, instancabile, culturalmente attrezzata. La tutela del lavoro, il primato della persona rispetto alla produzione, l’obiettivo tendenziale di ridurre le diseguaglianze economiche sono principi vivi nel magistero fin dai tempi del confronto con la cultura marxiana e con le strutture del collettivismo sovietico.
Ed è l’approccio anticipatore sul piano storico-umano globale della Populorum progressio ad autorizzare successivamente poi Giovanni Paolo II a riconoscere (ma in misura non esclusiva) il ruolo del mercato e della concorrenza come strumenti di libertà e di sviluppo della persona. Ed è oggi quell’apertura puntuale a consentire a Benedetto XVI una critica a un capitalismo che non serve più l’uomo ma arriva perfino a minacciarlo.
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Della recente enciclica Bazoli segnala cinque spunti-chiave: a) la denuncia dei limiti di un’economia globale totalmente asservita all’imperativo dell’incremento del profitto; b) l’affermazione che l’impresa deve soddisfare gli interessi non solo degli azionisti e dei manager, ma di tutti gli "stakeholder", nei portatori dei più diversi interessi nella comunità circostante; c) la richiesta ferma che i canoni della giustizia siano sempre affermati nel processo economico e che «un’economia pienamente umana» dia vita a «una forma concreta e profonda di democrazia economica»; d) l’auspicio di uno sviluppo realmente sostenibile dall’ambiente e delle sue risorse nello spazio e nel tempo; e) il rilancio di un’umanità fatta di «diritti e doveri» e non solo di interessi.
Secondo il banchiere, è una griglia interpretativa perfettamente funzionale a una crisi globale di cui sarebbe sbagliato focalizzare solo le dimensioni finanziarie: gli eccessi speculativi di un capitalismo autoreferenziale e i guasti di una deregulation indiscriminata e accelerata.
Invece – ed è il secondo punto di merito con cui certamente Bazoli metterà a rumore gli ambienti scientifici ed economici – alla base della crisi c’è un nesso pericoloso: la finalizzazione dell’attività economica all’obiettivo assorbente ed esclusivo del profitto può condurre «a un’alterazione della dialettica democratica, derivante dal controllo che i poteri economici possono esercitare nei gangli più delicati della formazione della volontà politica e quindi nella crescita corale della società civile».
L’equazione capitalismo/democrazia – secondo il Professore – è dunque in discussione: anzi è "la" discussione, per quanto impegnativa e per molti versi scomoda. Ma nessuna exit strategy può essere tale se concepita come ridotto cruciverba di regole: è invece nel labirinto pseudo-razionale delle formule che la finanza derivata ha preso forza distruttiva.
Si chiede dunque l’autore se «il compito di perseguire l’uguaglianza – che rappresenta, come appena detto, il fine ultimo e la stessa ragion d’essere della democrazia – spetti esclusivamente alla sfera politica o anche a quella economica. E, conseguentemente, se le regole riguardanti l’attività economica debbano servire solo ad assicurare la libertà, la concorrenza e l’efficienza, o anche a soddisfare le ragioni dell’equità e della giustizia».
È intorno a questo cruciale quesito che si impone dunque «un profondo ripensamento del sistema economico di mercato. Appartiene alla migliore scuola di pensiero liberale la posizione di chi propugna il principio dell’uguaglianza dei "punti di partenza", ossia la legittimità di interventi pubblici volti a perseguire tale uguaglianza, considerata come il necessario presupposto per un corretto dispiegarsi della competizione economica e della logica di mercato».
Tuttavia, la visione liberale dominante, «anche se afferma comunemente che vanno rispettati i principi di solidarietà e di sussidiarietà, ammettendo anche l’idea di una "democrazia economica", in realtà esclude che l’equità e l’uguaglianza rientrino tra gli obiettivi dell’attività economica, essendo questa rivolta a realizzare il profitto, con l’unico limite rappresentato dal rispetto dei vincoli posti dalle regole».
Bazoli è invece convinto che «l’economia abbia indubbiamente come fine primario quello della creazione della ricchezza e del miglioramento delle condizioni di vita degli uomini, ma debba farsi carico anche delle ragioni dell’equità e dell’uguaglianza. Questo è il Rubicone da attraversare».
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E la grande sfida da affrontare – sottolinea ancora Bazoli in quello che si rivela un terza, forte “provocazione” intellettuale – è allora il superamento della supposta neutralità dell’economia. «Alla base del sistema capitalistico che ha dominato la scena negli ultimi decenni – scrive – si trova l’assunto teorico che ogni uomo, quando opera come "homo oeconomicus", è legittimato, nello spazio di libertà riconosciutogli dalle norme giuridiche, a perseguire obiettivi egoistici (ossia il massimo guadagno e profitto); mentre deve perseguire l’interesse generale solo quando agisce come cittadino e concorre, come tale, alla formazione di quelle norme.
Questa tesi ammette come normale una dicotomia tra "homo oeconomicus" e "homo politicus" che risulta in evidente contraddizione con l’inscindibilità della persona umana e la necessaria coerenza e continuità della sua ispirazione morale, che non può venir meno nel momento dell’agire economico. L’integralità dell’uomo rappresenta il nucleo primario su cui deve fondarsi una nuova concezione del rapporto tra economia e società». E la critica della meritocrazia – cioè di uno dei "mantra" del super-capitalismo semi-fallito – è un terreno sul quale Bazoli ha voluto misurarsi concretamente da subito.
«Il capitalismo, com’è ampiamente noto, trova il suo “humus” originario nella Riforma protestante, nell’idea della ricchezza come grazia, ossia nell’idea che i doni e i talenti naturali riconosciuti agli uomini e la loro fortuna, il loro successo temporale, siano un segno della benedizione divina, un premio. Ma è forse giunto il momento di chiedersi se sia giusto che il sistema economico di mercato continui a ispirarsi prevalentemente a questo ethos di stampo calvinista e weberiano».
E un’altra pseudo-certezza viene posta sul banco degli imputati culturali della Grande Crisi: «Nessuno può dubitare che la meritocrazia sia un principio da valorizzare in ogni organizzazione sociale e che la concorrenza sia una procedura utile e insostituibile al fine di selezionare le persone e le produzioni migliori. È proprio su questi punti, tuttavia, che mi pare necessario aprire una nuova e spregiudicata riflessione.
Siamo certi che una concezione etica dell’economia che assolutizzi il primato del merito ed esalti la competizione al fine di selezionare i più bravi e i più forti sia aderente ai principi evangelici? Non è forse vero che un sistema improntato a questa logica comporta ineluttabilmente una radicalizzazione, anziché una mitigazione, delle disuguaglianze economiche e sociali? E non è altresì vero che proprio un sistema fondato su questi presupposti ha consentito le degenerazioni del supercapitalismo?».
La conclusione di Bazoli è ad un tempo una riposta e una domanda: come sempre nella sensibilità cattolica, come sempre in un discorso scientifico compiuto: «Il diritto di far valere i propri talenti deve dunque accompagnarsi inscindibilmente, anche in ambito economico, a inderogabili doveri di solidarietà: intesi in modo peculiare come doveri di rispetto, di tutela e di valorizzazione dei soggetti più deboli e svantaggiati. E questo è un principio che deve ispirare sia la definizione delle regole sia i comportamenti dei singoli operatori».
(Antonio Quaglio)