L’acqua in Italia non è ancora libera, ma è più libera di prima. La riforma del settore idrico, che si inserisce nel processo di apertura dei servizi pubblici locali, è un passo importante, perché segna finalmente l’accettazione della gara come strumento ordinario di affidamento della gestione dei servizi idrici, e limita fortemente la pratica dell’affidamento inhouse oltre a ridurre il ruolo degli enti locali anche come azionisti delle società interessate.
A dispetto delle polemiche delle ultime settimane, però, non vi è stata alcuna privatizzazione dell’acqua. La risorsa resta pubblica, come d’altronde imposto dalla Legge Galli fin dal 1994. Oggetto del più recente intervento legislativo sono i criteri attraverso cui vengono selezionati i soggetti che, per un periodo di tempo definito, dovranno farsi carico della gestione ordinaria del servizio e degli investimenti nella manutenzione e nello sviluppo di impianti e infrastrutture.
Quest’ultimo punto è fondamentale: gli acquedotti italiani perdono circa un terzo dell’acqua captata, in media, con punte ben superiori al 50% in casi come quello pugliese. Le reti fognarie non si trovano in una condizione migliore, e il servizio di depurazione dei reflui in diversi contesti non è neppure disponibile. La relativamente scarsa diffusione di adeguati servizi di depurazione, tra l’altro, è oggetto di una procedura d’infrazione europea contro l’Italia, visto che il nostro paese si trova in violazione della direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane.
L’esperienza della gestione puramente pubblicistica non si è rivelata soddisfacente; non solo, infatti, ha causato lo stato attuale delle reti, ma ha prodotto una qualità decisamente scadente, specie nel rapporto coi clienti. Le due principali obiezioni che sono state mosse sono, allora, del tutto infondate.
Si è detto che la “privatizzazione” avrebbe prodotto un aumento dei prezzi e un calo della qualità. I prezzi non sono, tuttavia, stabiliti dalle imprese, pubbliche o private che siano, ma dalle autorità d’ambito, organismi di natura strettamente pubblica. È vero che le tariffe sono aumentate negli ultimi anni: ma ciò dipende dall’assenza di investimenti nel passato, che devono essere ricuperati per evitare un deterioramento intollerabile dei tubi. I rincari riflettono la corsa degli investimenti.
La qualità del servizio, specie in relazione alle caratteristiche chimiche e batteriologiche dell’acqua, sono a loro volta fissate – ovviamente – a livello nazionale e locale, e quindi chiunque non sia in grado di garantire i livelli richiesti è automaticamente fuorilegge. Il problema riguarda semmai il sistema dei controlli e la mancanza di una regolazione organica a livello nazionale, ma questo ha relativamente poco a che vedere con la legge Ronchi, appena approvata.
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In realtà, la scelta di non muoversi anche su tale fronte è una mancanza della riforma: la volontà del legislatore di limitare le intromissioni degli enti locali nella gestione dei servizi, per prevenire conflitti di interesse, in qualche misura entra in conflitto col fatto che le autorità d’ambito dipendono dai sindaci, i quali sono anche sovente gli azionisti di maggioranza delle società idriche. Una maggiore incisività, dunque, non avrebbe fatto male.
Quello che si è visto in Italia è uno spettacolo bizzarro di opposizione fortissima su qualcosa che non è mai esistito. Certamente il nuovo assetto non ci trasporta nel migliore dei mondi possibili: ma crea un mondo meno peggiore di quello che c’era in precedenza.