Ormai la vicenda di Telecom Italia sta assumendo l’aspetto di uno sceneggiato televisivo a puntate con una trama che si fa sempre più intricata. L’impressione di fondo che questo spettacolo lascia è che, ancora una volta, gli argomenti di sostanza passino in secondo piano, scalzati da quelli di potere che pretendono e ottengono il ruolo di protagonisti.



Bisogna ricordare, in estrema sintesi, qual è lo stato dell’arte della Telecom. La società ogni volta che è passata di mano dal giorno della sua privatizzazione (e alla luce di quanto è successo dopo si può dar ragione a chi parla di una data infausta) lo ha fatto sempre assumendosi l’onere finanziario per conto dell’acquirente.



I vari membri del nocciolo duro di azionisti privati, i Colaninno e la razza padana, i Tronchetti Provera e i suoi amici del salotto buono così come gli attuali partner della Telco (la finanziaria cui fa capo circa il 20% della società guidata da Franco Bernabé) non hanno mai tirato fuori molti soldi per diventare padroni delle tlc italiane, ma hanno fatto ricorso a quella straordinaria invenzione finanziaria che è la leva: chi compra si indebita con le banche che ripagherà utilizzando i dividendi prodotti dalla stessa società acquisita.

Nel caso della Telecom questo ha significato che da anni la società viene spremuta per dare dividendi sempre più generosi in modo da poter onorare il servizio del debito. E questo ha avuto una conseguenza ovvia: sono mancati i mezzi per fare quegli investimenti indispensabili per reggere il passo con una concorrenza internazionale che non è certo stata ferma, nemmeno negli anni di crisi.



Conclusione: se si toglie la controllata brasiliana oggetto dei desideri di molti, Telecom Italia è ormai ridotta al rango di player regionale; e in più ha debiti per 35 miliardi di euro che le precludono la strada di qualsiasi acquisizione o di investimenti strategici di un certo respiro.

L’unico asset vero di cui ancora disponga è la rete costruita negli anni e utilizzata da lei e da tutti i suoi concorrenti. Da tempo si è aperto un dibattito sul destino da dare a questa rete: una scuola di pensiero vorrebbe scorporarla da Telecom per conferirla a una nuova società costituita ad hoc e partecipata da vari soggetti del settore ed extra; a questa teoria si oppongono con decisione Bernabé e parte degli azionisti Telecom che vedono nell’eventuale scorporo quasi un esproprio di uno dei pochi beni rimasti alla loro travagliata azienda.

In questa querelle si è naturalmente inserita la politica. La Repubblica nei giorni scorsi ha parlato di un vertice segreto che si sarebbe tenuto fra il viceministro dello Sviluppo economico con delega alle comunicazioni Paolo Romani, alcuni esponenti Mediaset e il consulente del Governo Francesco Caio, nel quale si sarebbe parlato di banda larga, di collaborazione fra società di tlc e televisive, e naturalmente dello scorporo della rete.

Secondo la Repubblica, scopo di tutto questo parlare sarebbe uno solo: Mediaset vorrebbe entrare come azionista di peso nella società che riceverebbe la rete una volta scorporata da Telecom. Immediate sono arrivate le smentite degli interessati, ma non sono bastate a raffreddare i rumor.

 

I quali, anzi, sono aumentati perché si intrecciano in maniera sempre più fitta con quelli che riguardano il vertice della società. Come si sa, una parte degli azionisti vorrebbe esonerare l’attuale amministratore delegato e sostituirlo con un manager più sensibile alle esigenze della politica.

 

La vicenda della rete ha fatto trovare a questa fazione degli alleati importanti, proprio nel cosiddetto palazzo sempre pronto a mobilitarsi quando ci sono di mezzo delle poltrone che contano e possono essere assegnate ad amici. Quindi oggi il dibattito su Telecom è concentrato sulle manovre di potere per sostituire i vertici. Le scelte strategiche che l’azienda dovrebbe fare, in fondo interessano meno. Se ne parlerà dopo.