Mentre in Italia i giornali sono costretti a dare conto delle baruffe chiozzotte tra Giulio Tremonti e Renato Brunetta – come se il paese non avesse necessità più impellenti che assistere a uno scontro di ego al governo – finalmente all’estero si comincia a guardare in faccia la realtà di questa nuova fase della crisi e ci si comincia a porre delle domande.
Ad esempio, questa: «Continuare con l’eroina o passare al metadone? Oppure smettere in tronco con qualunque sostanza?». Poco urbana e all’insegna delle terminologia utilizzata sugli stupefacenti e sulla disintossicazione, è infatti la lettura del Financial Times sul dibattito mondiale in merito a tempi e modalità di uscita dalle misure anti-crisi. E «mentre le autorità somministrano sedativi, gli investitori passano alle anfetamine: asset a rischio e oro». Ciò che ilsussidiario.net scrive da almeno quattro settimane.
E ancora, sempre dalle pagine del quotidiano finanziario della City, il presidente della Banca mondiale Robert Zoellick mette in guardia dai rischi che si creino nuove bolle speculative, in particolare nei mercati asiatici. Anche questa una minaccia già denunciata da tempo. Per il Ft le misure anti-crisi, che sono inevitabilmente temporanee, stanno aggravando i bilanci dei vari paesi che le hanno adottate e nessuno pensa che possano restare all’opera in maniera indefinita.
Ma sul quanto a lungo vadano ancora mantenute non c’è concordia. Da un lato ci sono i politici, dice sempre l’Ft, «tra cui va incluso il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn», che vogliono evitare di iniziare le exit strategies, affermando che ora sono premature. «È la classica posizione dei politici: sono riluttanti a prendere decisioni irreversibili che hanno conseguenze imprevedibili, e allora rimettono la palla al centro».
Dall’altro, prosegue un articolo della Lex Column, il caustico focus di ultima pagina, «ci sono policy maker più coscienziosi dei problemi tecnici, come i governatori della Banca centrale europea. Ritengono che mantenere gli stimoli potrebbe creare le prossime crisi. E stanno lentamente portando il paziente verso il metadone. Ma intanto gli investitori stanno scegliendo le loro personali exit strategies: comprano asset a rischio e oro. Mentre i policy maker somministrano sedativi – conclude l’Ft – loro optano per le anfetamine».
Non ho mai usato terminologie farmacologiche legata alla tossicodipendenza ma da settimane dico le stesse cose: non è un vanto, ma un motivo di ulteriore preoccupazione. Se c’è arrivato un signor nessuno come il sottoscritto, gli altri che favola stavano leggendo nel frattempo? Soprattutto, più che tra i giornalisti, tra i politici e i banchieri.
È il vecchio adagio: la finanza e i mercati sganciati dalla realtà, il “muro di liquidità” che porta la gente a speculare sull’oro come sui futures petroliferi e vede qualche milione di americani disoccupati, non in grado di pagare il mutuo e in default sulla carta di credito. Magari dopo che la denuncia è arrivata dal Ft, qualcuno potrebbe prendere sul serio la situazione.
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I numeri, infatti, parlano di una situazione di dubbia lettura. Quindi, molto pericolosa a livello di diagnosi e potenziale cura. Partiamo dagli Usa. Il numero di lavoratori che per la prima volta ha fatto richiesta di sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti la settimana scorsa è sceso al livello minimo in oltre un anno e allo stesso tempo le spese per consumi di ottobre sono aumentate più del previsto: insomma, buone notizie.
Il dipartimento del Lavoro americano ha comunicato che le richieste di sussidi di disoccupazione sono diminuite di 35mila unità nella settimana conclusasi il 21 novembre, a 466mila unità. La settimana scorsa il livello era a 501mila (rivisto al ribasso dalle 505mila inizialmente rilevate): gli economisti avevano previsto un calo molto inferiore, pari a 500mila unità. Si tratta della cifra più bassa dal 13 settembre 2008 ed è la prima volta che il livello scende sotto le 500mila unità dallo scorso gennaio.
Ma buone notizie, come anticipato, arrivano anche dal dipartimento del Commercio, che ha rilevato un aumento dello 0,7% delle spese per consumi il mese scorso, contro un calo dello 0,6% di settembre. I redditi personali degli americani al tempo stesso sono cresciuti dello 0,2% e per il secondo mese consecutivo: in questo caso gli analisti avevano previsto un aumento dello 0,6% delle spese e dello 0,1% dei redditi.
Ma il dato più importante, quello che ha messo le ali a Wall Street dopo un avvio piatto, è stato il 6,2% in più in un mese per quanto riguarda la vendita di nuove case negli States, un qualcosa di insperato anche dagli analisti più ottimisti. Ultimo dato, gli ordini di beni durevoli negli Usa sono scesi dello 0,6% a ottobre, contro un aumento dello 0,2% a settembre (dato rivisto dall’iniziale +1,4%): gli analisti si aspettavano un rialzo dello 0,5%.
Insomma, un dato negativo ma nel complesso il quadro macro uscito ieri dagli Usa appare incoraggiante anche se pronto a inversione repentine. Come già detto, una situazione tutta da decodificare. Chi invece ci spiattella in faccia con teutonica chiarezza la sua situazione tutt’altro che rosea è appunto la Germania, segnale questo che dovrebbe accendere la sirena dall’allarme per tutta l’eurozona.
Il governo tedesco ha deciso, infatti, di prorogare a tutto il 2010 lo scheda di sostegno pubblico all’occupazione, che vede lo Stato farsi temporaneamente carico di una consistente quota delle buste paga, mentre le aziende riducono le ore lavorate evitando però tagli occupazionali. Allo stesso tempo Berlino ha però accorciato da due anni a 18 mesi il tempo massimo in cui le imprese possono sfruttare questi aiuti.
«Mantenere i posti di lavoro resterà una sfida nel 2010», ha avvertito il ministro del Lavoro, Franz Josef annunciando la proroga: e proprio ieri l’indagine mensile dell’istituto Gfk ha rilevato che i timori in merito alla crescente disoccupazione hanno determinato un indebolimento della fiducia delle famiglie tedesche a novembre.
Lo schema di sovvenzione pubblica tedesco al lavoro parziale punta a assistere le imprese durante la fase di riduzione della produzione legata alla crisi: lo Stato copre fino al 67% del reddito dei lavoratori che si vedono ridurre l’orario e nel secondo trimestre 1,4 milioni di addetti hanno ricevuto sovvenzioni sulla base di questo sistema. Insomma, si cerca di rianimare l’economia e i consumi ma il debito sale.
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E continua a salire visto che sempre il governo tedesco ha deciso di intervenire con una iniezione di liquidità d’emergenza a favore di WestLB, uno dei maggiori istituti regionali tedeschi con una decisione che segnala la persistente fragilità di un comparto creditizio che sta ancora lottando per ripulire le attività “tossiche” dai suoi libri contabili.
Lo rivelava ieri mattina sempre il Financial Times che, citando fonti vicine all’operazione, segnalava come secondo le bozze preliminari d’intesa Berlino fornirà un’iniezione di capitale iniziale da 3 miliardi di euro con la possibilità di fornire un ulteriore miliardo in seguito: i fondi erogati da Berlino potranno essere successivamente convertiti in quote azionarie fino al 49% del capitale dell’istituto. Per lo stato tedesco si tratta del maggiore intervento nel travagliato comparto delle Landesbank, che fino a oggi durante la crisi sono state sostenute dai rispettivi “padroni” regionali.
Germania, assets tossici non ripuliti e pronti ad esplodere come una bomba, la famosa bad bank che non nasce, il debito che schizza all’in su per la locomotiva d’Europa: anche queste cose non suonano nuove a ilsussidiario.net. Ora, però, i regolatori, i banchieri e i politici la smettano di fare come Tremonti e Brunetta e si rimbocchino le maniche: il tempo sta scadendo, la prima bolla da eccesso di liquidità potrebbe esplodere tra gennaio e febbraio. E allora, sì, saranno guai.