Le consistenti perdite fatte registrare la scorsa settimana dai mercati finanziari, unite alla diffusione di dati sull’occupazione particolarmente negativi, hanno contribuito in modo decisivo a risvegliare da una pericolosa euforia tutti coloro i quali nei mesi scorsi hanno creduto che la crisi fosse finita e potesse essere dunque rapidamente dimenticata.
In realtà, anche se la fase più dura è ormai alle spalle, dovremo convivere ancora per molto tempo con una situazione di incertezza e difficoltà forse ancora più insidiosa del periodo dal quale siamo appena usciti. Senza contare poi che le decisive drastiche misure espansive, monetarie e fiscali, adottate dai Governi di tutto il mondo ben difficilmente potranno essere ripetute.
Queste considerazioni ci devono indurre allora a non disperdere la lezione culturale più importante che la crisi ci ha trasmesso, ovvero a capire che il rischio maggiore che sta correndo la nostra generazione è quello di non rendersi conto che la più stretta interdipendenza tra popoli e culture, che è forse il frutto più maturo della globalizzazione, deve andare di pari passo con una maggiore e più consapevole vicinanza tra persone, con un più sentito e maturo senso di appartenenza a un’unica comunità. Questa maggiore sensibilità e coscienza etica vanno poi declinate nella concretezza dei comportamenti. Un esempio potrà forse meglio di tante parole chiarire cosa abbiamo in mente.
Consideriamo il rapporto oggi così difficile tra banche e imprese. Da parte degli imprenditori si lamenta (in parte anche a ragione) una maggiore difficoltà nell’accesso al credito, che sempre più spesso viene legato esclusivamente alle garanzie che si possono fornire e non si fonda quasi per nulla su una stima dell’affidabilità personale, sui comportamenti passati e sulla validità dei progetti proposti. Da parte delle banche si contesta invece la richiesta di credito anche quando non ci sono le condizioni per la sua restituzione.
Ovviamente entrambe le posizioni hanno un contenuto di verità che si basa su due semplici constatazioni. La prima è che sempre nei periodi di crisi un numero consistente di attività imprenditoriali – quelle meno innovative, meno capitalizzate e complessivamente meno preparate alle difficoltà – è inevitabilmente costretta a chiudere ma, prima di soccombere, si rivolge agli istituti finanziari come ultima spiaggia. La seconda è che le banche, per ovvi motivi, hanno oggi una particolare riluttanza a prendere rischi che, in periodi tranquilli, sono invece pronte ad accettare.
Ma come uscire allora da questo impasse, abbandonando un ping-pong polemico senza costrutto e mettendo invece in pratica i veri insegnamenti della crisi per affrontare in modo nuovo e costruttivo il tema cruciale del rapporto tra sistema finanziario e imprenditorialità?
La risposta a questa domanda va cercata, a nostro avviso, nei comportamenti dei singoli soggetti che devono essere improntati a maggiore responsabilità e lungimiranza, quest’ultima da intendersi come la capacità di guardare lontano. In particolare, per quanto attiene alle imprese, gli imprenditori devono aver chiaro che non rispondono solo a propri azionisti ma devono invece render conto a una ben più vasta comunità di riferimento che ruota, in vario modo, attorno alle operazioni della propria impresa.
In questo senso, la capacità di innovare, la valorizzazione delle risorse umane e il legame con il territorio in cui si opera sono fondamentali. Altrimenti non si lavora più per il bene comune ma per il proprio tornaconto personale e la ricerca del profitto, invece di essere un importante elemento del buon funzionamento dell’attività imprenditoriale, diventa la ragion d’essere del proprio operare.
Per quanto attiene poi alle banche, è necessario che le istituzioni finanziarie si ricordino che il loro compito principale consiste nel favorire lo sviluppo tramite la concessione del credito (la cui radice è la stessa di credere, avere fiducia). E questo compito va svolto in modo a un tempo efficace dal punto di vista economico e secondo criteri di responsabilità. E i due vincoli del “far bene” e “secondo coscienza” vanno sempre tenuti assieme, essendo tra loro inscindibili.
Queste indicazioni sono espresse da Papa Benedetto XVI in modo assolutamente straordinario in un brano della Enciclica Caritas in Veritate : «L’intero sistema finanziario deve essere finalizzato al sostegno di un vero sviluppo. Soprattutto, bisogna che l’intento di fare del bene non venga contrapposto a quello dell’effettiva capacità di produrre dei beni. Gli operatori della finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro attività per non abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire per tradire i risparmiatori. Retta intenzione, trasparenza e ricerca dei buoni risultati sono compatibili e non devono mai essere disgiunti. Se l’amore é intelligente, sa trovare anche i modi per operare secondo una previdente e giusta convenienza»(Caritas in Veritate, n. 65).
È un’analisi di grandissimo spessore, profondità e capacità di cogliere la realtà, che fa emergere chiaramente quale deve essere l’obiettivo a cui tendere nella ricerca del bene comune. Deve essere questo il benchmark (per usare un termine caro a chi opera nella finanza) sia per le nostre imprese, che devono avere una visone che guarda al lungo periodo e che cerca il bene comune, sia per le nostre banche, che devono fare del rapporto di fiducia con l’imprenditore e del legame con il territorio gli elementi imprescindibili della loro strategia di crescita. Solo in questo modo si percorre davvero la strada che conduce allo sviluppo umano integrale.
I richiami all’etica che tante volte sono risuonati negli ultimi due anni devono uscire dalla retorica per diventare comportamenti più responsabili e improntati a maggiore lungimiranza. Perché in ultima analisi la coscienza richiede di essere declinata in azioni concrete per non ridursi a sterile moralismo.