Nel corso dello scorso weekend, placidamente, sono fallite altre nove banche regionali negli Usa: il computo totale per quest’anno ha raggiunto quota 115. Non male davvero, deve essere uno degli effetti collaterali della cosiddetta ripresa sbandierata a destra e a manca dopo la comunicazione del dato sul Pil Usa. Che, giova ricordarlo, depurato dagli stimoli governativi, sarebbe al 2,4% e non al 3,5%.
Ma tant’è, per qualcuno è sufficiente. Ma c’è di peggio. E molto. Come anticipato dieci giorni fa da ilsussidiario.net, sempre negli Usa Cit Group, finanziatore importante per le piccole e medie imprese, ha presentato istanza di bancarotta domenica pomeriggio, «un processo che quasi certamente spazzerà via gli investimenti per 2,3 miliardi dollari fatti dal governo federale nella società. Cit è la prima azienda a fallire dopo essere stata salvata dal governo».
A evidenziarlo era ieri il Washington Post che spiegava come la compagnia speri comunque di «ridurre significativamente il proprio debito in quello che è conosciuto come un piano di riorganizzazione “preconfezionato”, che le consentirebbe di uscire dal periodo di protezione garantito dal Chapter 11 entro la fine dell’anno». Si tratta, proseguiva il quotidiano americano, di uno dei più grandi casi di fallimento nella storia degli Stati Uniti e, avverte, «potrebbe avere estesi effetti a cascata».
L’azienda fornisce infatti prestiti a circa 1 milione di aziende, tra cui molte già alle prese con la recessione economica. Non è un’altra Lehman Brothers ma per “main sreet” potrebbe essere anche peggio: insomma, con Cit tocchiamo quota 116 fallimenti di istituti bancari e para-bancari negli Usa.
Ma, tornando all’argomento iniziale, proprio di eccesso di politica di stimolo e rischio iper-inflattivo quando questa verrà giocoforza abbandonata – a meno che non si voglia andare in default sul debito – si comincia a parlare sia a New York che a Londra. In entrambi i casi con toni decisamente preoccupati.
Per Roger Nightingale della Pointon York, si rischia «una depressione simile a quella del 1930 se si abbandoneranno le misure di stimolo troppo rapidamente», mentre Charles Lemonides, chief investment officer alla Valueworks LLC, avverte che «bisogna dare maggiore importanza ai dati macro che giungono dall’economia e forse meno ai mercati. E i dati che arrivano non ci dicono nulla di buono, i problemi non sono affatto risolti. Basta guardare alla situazione del 1930 e avremo la fotocopia perfetta di quella odierna: mercati forti ed economia debole».
Dio ce ne scampi. Il problema è che a spaventare non è la Cina che nonostante la diversificazione e lo shopping di riserve perde il 20% di export verso gli Usa o gli stessi Stati Uniti alle prese con istituzioni finanziarie ancora strapiene di titoli tossici e un deficit federale come mai rima, bensì la seconda economia del mondo che rischia di trasformarsi nella dinamo di una depressione globale.
Parliamo, ovviamente, del Giappone. Lo storico avvento al governo dei Democratici – e delle loro fallimentari impostazioni neo-keynesiane – aveva già spaventato i mercati, preoccupati per questa messe di parvenu della politica chiamati a gestire la peggior crisi finanziaria ed economica del secondo dopoguerra.
Oggi ne abbiamo la conferma: i cds per assicurarsi dal rischio di default del Giappone sono infatti schizzati a 63 punti base da 35 in due mesi, un impennata che ricorda quella altrettanto preoccupante dell’indice Vix – quello che misura la volatilità dei mercati e, di fatto, prezza i derivati di copertura dal rischio – che venerdì è cresciuto in un botto del 24%. Per capirci, la Germania è a 21, la Francia e gli Usa a 22 e la Gran Bretagna a 47.
Certo, il blitz compiuto dai Democratici appena saliti al governo per raggranellare 550 miliardi di dollari al fine di finanziare il welfare e la “nuova politica sociale” non è stato un buon viatico ma il peggio sembra ancora lì da venire. La pensa così Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, che di fronte al Congresso Usa la scorsa settimana ha parlato chiaramente di «un serio rischio di default per l’economia giapponese».
Le cifre, d’altro canto, parlano chiaro. Il Fondo Monetario stima che il debito pubblico arriverà a quota 218% sul Pil quest’anno, 227% l’anno prossimo e 246% nel 2014. Il problema è che il mercato perde capacità di assorbire questo debito, così come le parsimoniose famiglie giapponesi non riescono più a mettere da parte denaro: il tasso di risparmio è crollato dal 15% del 1990 al 2% attuale. E con il calo demografico, è giunta anche la contrazione della forza lavoro.
Non stupisce, con questi numeri, che il ministero delle Finanze stia pubblicizzando i bond sui taxi di Tokyo: il rischio che il tasso di interesse mandi in frantumi le finanze pubbliche c’è eccome. Avverte Carl Weinberg della High Frequency Economics: «La situazione del debito in Giappone non è recuperabile. O, almeno, io non vedo alcuna via d’uscita praticabile all’orizzonte. Lo Stato non sarà in grado di finanziare il suo deficit, ci sarà una crisi fiscale durissima, un taglio draconiano delle pensioni e una serie di fallimenti bancari che scuoteranno il sistema in tutto il mondo. È criminale la negligenza delle agenzie di rating che non stanno lanciando l’allarme sui mercati». Fosse la prima volta…
A questo va unita la decisione della Bank del Giappone di sospendere a dicembre le operazioni – già non eccessive come altrove – di quantitative easing, ovvero di stampare e mettere in circolo moneta. «È incredibilmente pericoloso quanto stanno per fare – avverte Russell Jones della RBC Capital Markets -. Le cifre sono da incubo, le dinamiche del debito orribili e così si rischia davvero una spirale al ribasso».
Inoltre Tokyo ha follemente lasciato apprezzare lo yen contro dollaro e yuan e i principali esportatori del paese sono ben sotto i costi di break even: la politica di quantitative easing è stata troppo blanda e troppo tardiva, ecco quindi che i mercati e l’economia reale presentano il salatissimo conto. Che, purtroppo, rischiamo di pagare tutti. Alla faccia della ripresa dietro l’angolo e dei brindisi borsistici per il dato del Pil statunitense.
Non appare un caso che ieri mattina l’indice Nikkei chiudesse sotto del 2,31% mentre la Cina brindava a un rotondo +2,7%: insomma, il Giappone potrebbe dare il colpo di grazia alle residue speranze di ripartenza. Ma si sa che più la crisi picchia duro, più i duri giocano volentieri. E fanno soldi a palate.
Goldman Sachs è infatti in trattative per comprare milioni di dollari di crediti fiscali dal gigante dei mutui controllato dal governo Fannie Mae anche se l’operazione si scontra con il potenziale semaforo rosso del Tesoro, almeno stando alla cronaca del Wall Street Journal.
L’amministrazione Obama, infatti, teme gli effetti di un accordo che in sostanza ridurrebbe il carico fiscale di Goldman Sachs, alla luce della tensione che esiste tra molti parlamentari e Wall Street e in particolare Goldman Sachs. Inoltre è molto forte a Washington la preoccupazione di non far percepire che Goldman venga trattata in modo privilegiato sulle altre banche.
I dettagli ancora non sono chiari ma alcuni a Wall Street ritengono che Goldman potrebbe comprare fino a un miliardo di dollari di crediti fiscali da Fannie. Da quando ha assunto il controllo di Fannie Mae, il dipartimento del Tesoro ne ha acquistato 45,9 miliardi di dollari in azioni privilegiate, dando quindi ai contribuenti una quota sostanziale nella proprietà.
I crediti fiscali sono stati un incentivo federale per incoraggiare gli investimenti per costruire abitazioni per famiglie a basso reddito: questi crediti tendenzialmente hanno una durata di 10 anni e sono attraenti per società che sanno di poter produrre utili in quel lasso di tempo. Non basta essere la controparte di tutti i bond sul debito che gli Usa piazzano nel mondo, ora si punta anche allo scarico fiscale: cambiamo tutto affinché nulla cambi.