Sergio Marchionne si è lanciato in un doppio salto mortale. Per raddoppiare sia pur in cinque anni le vendite Chrysler (oggi non arrivano a un milione e mezzo), lanciare 21 nuovi modelli, trasformare Jeep in un marchio globale, tornando in pareggio l’anno prossimo e in utile nel 2011, bisogna davvero avere l’abilità di un acrobata e la sicurezza di un temerario.
Lo scenario ottimistico che ha presentato nell’infinito show di Auburn Hills, non è del tutto infondato, sia chiaro. Il mercato dell’auto si sta rimettendo in moto, anche in America. Ford ha annunciato addirittura un utile di un miliardo di dollari, senza un centesimo di aiuti pubblici.
General Motors, salvata invece dal governo, è uscita dal Chapter 11 (la riorganizzazione per bancarotta) in appena quattro mesi e adesso non vuol più vendere né Opel né le altre attività europee. Certo, dovrà varare un doloroso piano di tagli, del resto c’è un eccesso di capacità produttiva e il Vecchio continente non sfugge al comune destino, nonostante le illusioni che la politica ha instillato con troppa faciloneria. La stessa Ford si è ripresa grazie a una ristrutturazione avviata a passo di carica, senza guardare in faccia a nessuno e contando sul sostegno dei sindacati. Il consenso sociale, del resto, negli Usa come in Europa, resta la chiave della riconversione produttiva.
Il piano mostra una crescente integrazione con Fiat che è “il nuovo proprietario”, come ha chiarito il presidente Bob Kidder. Chrysler sarà americana fuori e Fiat dentro. La Cinquecento che faceva bella mostra di sé accanto alle vetture americane, dava il segno della novità. Jeep, il marchio sul quale si basa il rilancio della casa americana, monterà dall’anno prossimo motori Fiat e alcuni modelli verranno prodotti su piattaforme comuni. Non solo: il paese test per il rilancio sarà il Brasile dove il gruppo torinese gode di una posizione di forza. Il ritorno della casa italiana negli States avverrà attraverso la rete Chrysler.
Ma attenzione, la nuova 500, la vetturetta alla quale bisogna abituare l’élite giovane e affluente delle metropoli Usa, verrà prodotta in Messico non in Italia o in Europa. E’ legittimo chiedersi, dunque, se questa strategia entrerà in contraddizione con i legittimi interessi dei lavoratori e dell’economia italiana. Negli Usa, la Fiat, a fronte di 9 miliardi concessi dal governo, promette il rilancio produttivo. In Italia riuscirà a rispettare gli impegni? Che fine faranno gli stabilimenti ad alto rischio come Termini Imerese e Pomigliano d’Arco?
Non avrà un compito facile Marchionne, anche perché si è lanciato senza rete, o meglio senza la rete più importante che è quella fornita dagli azionisti. Gli eredi Agnelli giurano di dare tutto il sostegno possibile.
Ma non aprono il borsellino. Se avessero impegnato sei mesi fa parte della liquidità conservata in Exor, che vogliono spendere per comperarsi Fideuram, avrebbero avuto una chance in più per centrare l’obiettivo Opel. La farsa tedesca finita con la burla americana, dimostra che anche in terra di Germania si naviga a vista. Vince chi ha più coraggio di rischiare. Del resto, non è questa la legge aurea dello sviluppo? Il problema è che dalla recessione l’Italia esce ancora una volta con un capitalismo scarso di capitali e con una classe di capitalisti che ha scelto la strategia della tartaruga.
Sia lode, dunque, all’audacia di Marchionne che negli Usa sta già diventando un mito. La Fiat non ha alternative: o sarà una multinazionale o non sarà. Ma una scelta strategica importante non si fa a costo zero.
Né si può coprire una ritirata lanciando una carica di cavalleria. Il rischio è diventare come il protagonista del romanzo di Rudyard Kipling, “L’uomo che volle farsi re”. Persino quei creduloni dei kafiri, alla fine, scoprirono che Daniel Dravot non era il discendente di Alessandro e tanto meno un dio.