La maratona di Auburn Hills per presentare al mondo la nuova Chrysler si può sintetizzare in solo sei parole. O la va o la spacca. Perché il complesso piano di Sergio Marchionne per rilanciare la casa automobilistica americana ha come caratteristica principale il legarla indissolubilmente ai destini di Fiat. Ma se questo è vero, è vero anche il contrario. Se le cose dovessero andare male oltreoceano, il fallimento trascinerebbe in guai serissimi anche il Lingotto. Non si potrà innestare la retromarcia come ha fatto Daimler qualche anno fa e battere in ritirata magari pagando qualcuno per raccogliere i cocci. Perchè non sono due barche che navigano affiancate, ma una unica piattaforma galleggiante che, per ora, ha solo necessità di riparazioni. Tante riparazioni.
Fiat ha bisogno di volumi, di nuovi mercati, di auto più grandi per aumentare i margini. Chrysler ha bisogno di tutto. Ma soprattutto del quinto marito di Zsa Zsa Gabor, ovvero Sergio Marchionne, che è forse non è l’unico manager al mondo a poter compiere questa «impresa monumentale», ma è sicuramente l’unico che non solo ha accettato la sfida, ma l’ha cercata, voluta, desiderata.
Tutti dicono che ad Auburn Hills, a poche miglia da Detroit e dal suo Canada, l’amministratore delegato di Fiat cercherà di ripetere lo stesso miracolo compiuto a Torino qualche anno fa quando ha tirato fuori dalle secche un’azienda sull’orlo del collasso. E le similitudini ci sono tutte, a cominciare dalla cerimonia di presentazione del passato mercoledì che assomiglia a quella che ha dato il via alla rinascita di Fiat, oppure il numero di manager di prima linea scelti allora che è identico a quello individuato oggi negli States. Ma ci sono anche grandi differenze.
La prima è che Chrysler, sotto molti punti di vista, sta messa meglio di Fiat qualche anno fa perché il fallimento ha tagliato in un colpo solo rami secchi e debiti.
La seconda è che Marchionne questa volta dovrà cucinare la sua ricetta in un pentolone molto più grande fatto di una decina di marchi, centinaia di modelli e innumerevoli mercati diversi. La realtà aziendale che si trova davanti ora è decisamente più complessa e sparsa geograficamente su almeno tre continenti. Solo per stabilire chi deve vendere, cosa e dove, c’è da perderci la testa. La terza differenza è la situazione economica che è decisamente meno favorevole rispetto a qualche anno fa. La crisi ha reso molto più tesa la concorrenza tra le case automobilistiche mondiali e i mostri sacri come Toyota o Gm che hanno inciampato negli ultimi mesi non vedono l’ora di rimettersi in testa alla corsa.
Ma anche Marchionne è diverso dallo sconosciuto manager che Umberto Agnelli designò alla guida della Fiat. La sua esperienza attuale nel settore automobilistico non è neanche commensurabile con quella che aveva allora. In più in questi anni ha avuto modo di creare una squadra di manager, a cominciare da Olivier Francois e da Alfredo Altavilla, con cui è in piena sintonia. Niente a che fare con il continuo sparigliamento delle cariche che ha caratterizzato i primi mesi della gestione Marchionne al Lingotto.
Diversa o simile, la sfida è partita. Adesso è una questione di soldi e di timing. Ogni tre mesi Chrysler farà sapere come stanno andando i conti, pur non avendo nessun obbligo di farlo perché non è un’azienda quotata. Ma le asticelle sono poste molto in alto: utile operativo il prossimo anno, utile netto dal 2011 che arriverà a 3 miliardi di dollari nel 2015, una data che è dietro l’angolo. Un anno prima restituzione del prestito concesso dal Governo Obama. Il punto di pareggio è a 2 milioni di auto vendute, meno di quante ne vendesse Chrysler prima della crisi, ma il 50% in più di quante ne venderà quest’anno. Numeri da far tremare i polsi a chiunque. Tranne a Marchionne che questa sfida l’ha cercata, l’ha desiderata e, ora, non vede l’ora di giocarsela.