I recenti dati sul Pil americano, che ha fatto segnare un più 3,5 per cento nel terzo trimestre, hanno fatto sperare in un consolidamento della ripresa o quantomeno in un allentamento della morsa della crisi. Ma se si guardano bene le cose, e si considera che il dato Usa va depurato degli ingenti aiuti di stato – che pesano anche tre punti percentuali -, e che i dati su occupazione e consumi sono molto più contrastanti, si vede bene che la prudenza è d’obbligo. E in Europa la situazione non è certo migliore. «Non possiamo trasgredire il vincolo che ci viene dal deficit pubblico – dice l’economista Paolo Savona -. La mia proposta è quella di cedere patrimonio pubblico e con gli introiti abbattere il debito. Abbattendo quindi gli oneri finanziari sul debito pubblico e creando spazio per la spesa».



Professore, gli Stati Uniti potranno tirare come prima l’economia mondiale?

Solo se il mondo è disposto ad accettare lo squilibrio della loro bilancia dei pagamenti e quindi a finanziare i loro bisogni. Gli Stati Uniti stanno tornando allo sviluppo ripristinando il loro vecchio modello, basato sullo spostamento del debito privato sul di debito pubblico.



Obama si trova a dover affrontare il medesimo dilemma di tutti i paesi interessati dalla crisi, Italia compresa: se stimola l’economia facendo altro debito peggiora il saldo di bilancio pubblico, ma se non lo fa la crescita sarà insufficiente. Col risultato di aumentare la disoccupazione.

Su questo non c’è dubbio. Per di più quando si verificano crisi così gravi le imprese esplorano le frontiere della tecnologia più avanzata, proprio per risparmiare lavoro. Quindi non solo per ristabilire il livello di occupazione gli Usa devono tornare ai vecchi saggi di sviluppo, ma ne avrebbero bisogno di superiori. Ma questo comporta un aumento fortissimo del disavanzo di parte corrente. Si può stimare che mentre all’attuale regime gli Stati Uniti hanno bisogno di 550 miliardi di dollari di finanziamento internazionale, per tornare ai livelli precedenti ne servirebbero 800-850.



Quali sono le conseguenze per una strategia “attendista” come quella italiana, che confida nella ripresa dell’export?

Non possiamo trasgredire il vincolo che ci viene dal deficit pubblico, che è a livelli quasi doppi rispetto a quelli previsti dal trattato di Maastricht. Possiamo fare ben poco rispetto a paesi come la Germania, che hanno una situazione migliore e un surplus di bilancia dei pagamenti. Più che di attendismo parlerei di necessità. D’altronde il nostro modello di sviluppo è basato sulle esportazioni: e se quelle non tirano, la nostra economia non procede. Incrementarla con aumenti salariali e aumento di spesa pubblica peggiorerebbe soltanto la situazione.

Non è possibile secondo lei cambiare una scelta di politica economica come la nostra, basata essenzialmente per ora sul contenimento del debito?

Si può farlo solo con anni di riforme. Nell’oggi la mia proposta è quella di cedere patrimonio pubblico e con gli introiti abbattere il debito. Abbattendo quindi gli oneri finanziari sul debito pubblico e creando spazio per la spesa. Il tutto senza fare ancora modifiche strutturali. È l’unica soluzione che io valuto possibile. Le altre restano avventuristiche: come ribassare le tasse senza preoccuparsi del disavanzo, nella speranza che l’elasticità della domanda superi il deficit pubblico che genera.

La Cina potrà compensare la forza minore della locomotiva americana? Anche Pechino ha un bel dilemma: se forza la crescita potrebbe trovarsi di fronte ad una bolla, ma se toglie gli incentivi?

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No, credo che la Cina abbia margini per poter agire. L’avanzo si è ridotto, ma ha trovato il modo di sopperire con la domanda interna. La Cina ha un problema di bolla speculativa nell’edilizia, come è stato per gli Usa, e le autorità sono molto preoccupate. Però il sistema fortemente centralizzato consente alle autorità di fronteggiare le crisi meglio di molti paesi occidentali, che hanno un “onere da democrazia” molto forte.

 

Il G2 Usa-Cina si conferma l’asse strategico del futuro?

 

Intanto il G2 è una formula giornalistica. Che la Cina, essendo la più grande finanziatrice degli Stati Uniti, abbia un dialogo col debitore – chiamiamolo pure G2 – è del tutto naturale. Però ritengo che alla fine il resto del mondo non accetti facilmente un dialogo a due. Cina e Usa non possono tener fuori dalle decisioni gli altri 18 membri del club, che loro stessi hanno creato per fini economici. Non è un caso che la formula sia passata dagli otto ai venti membri.

 

L’Europa può difendersi?

 

L’Europa è in grave ritardo e vive su un ossimoro: si chiama Unione europea ma è l’area del mondo che vive nella maggiore disunione. Non è un interlocutore unitario ed è questo il fatto grave, che le toglie peso politico. La Germania è il paese che conta singolarmente di più: ha un avanzo di bilancio ed è potenzialmente una finanziatrice degli Stati Uniti e anche del resto dell’Europa. Ma i nuovi equilibri geopolitici escludono attori solitari.

 

È ipotizzabile svalutare ulteriormente l’euro per renderlo più competitivo?

 

Siamo se mai candidati alla rivalutazione e non alla svalutazione. Resto fermamente convinto di due cose. La prima è che non si può basare lo sviluppo del mondo sui disequilibri di bilancio, e la seconda è che la Bce debba effettuare interventi di stabilizzazione dell’euro.

 

Questo cosa comporta?

 

Che bisogna rafforzare la moneta tramite i rapporti commerciali con l’estero e non attraverso i rapporti con le banche. Ma pare che la Bce non la pensi così.

 

Ci sono i rischi di un cedimento del dollaro come moneta di riferimento?

 

Sì, sono convinto che il dollaro sia candidato a subire una grossa svalutazione. È certo il se, ma è incerto il quando. La sua debolezza è la vera nube che incombe sul futuro dell’economia mondiale. Ma la stabilità globale dipende anche dalla Cina: bisogna augurarsi che essa non perda terreno. Anche se rimane il problema del mantenimento artificioso del cambio tra valuta cinese e dollaro.

 

La Fed è fermamente intenzionata a non toccare i tassi per facilitare la ripresa in casa Usa, ma sul lungo periodo i rischi sono enormi.

 

Alla Fed sanno leggere e scrivere e conoscono benissimo i rischi. Certo che una cosa è dichiarare di volere il dollaro forte, altra cosa è averlo davvero. E sanno benissimo che non ce l’hanno.

 

(Federico Ferraù)