Va bene, lo ammetto: non ho ancora letto L’Italia fatta in casa di Alberto Alesina e Andrea Ichino, e quindi non ne parlerò. Tuttavia, sono rimasto sorpreso dalla piega assunta dal dibattito che il libro ha provocato. Cominciando dall’articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere del 29 novembre, per seguire con le repliche apparse su diverse testate nei giorni seguenti, pare che a confrontarsi siano due modelli di società – uno “familista”, l’altro “antifamilista” – che vengono caricati di connotati etici, positivi o negativi, e tra i quali i lettori e i responsabili della politica economica sono invitati a scegliere.
Malgrado le dichiarazioni di intenti, le intenzioni delle donne rimangono sullo sfondo, quasi che la priorità fosse il raggiungimento di un obiettivo macroeconomico (l’aumento del tasso di partecipazione femminile) o politico-sociale (la salvaguardia di una società “fondata” sulla famiglia) e non piuttosto il conseguimento del maggior grado di benessere per le donne e, con buona pace di tutti, delle famiglie.
Sorprende un po’, in altri termini, che rimanga ai margini del dibattito la promozione di una effettiva libertà di scelta da parte delle donne (o, per chi lo preferisce, da parte delle famiglie intese come centri decisionali “unitari”) circa le modalità di presenza nel mercato del lavoro.
Eppure, a quel che sembra, è proprio il perseguimento di una vera libertà di scelta che dovrebbe guidare gli interventi di politica per la famiglia. Sconcerta non poco, in proposito, la proposta – mi auguro giocata sul filo del paradosso – che si legge sul Corriere del 1° dicembre, di rendere obbligatorio il congedo di paternità: la strada da percorrere va proprio nella direzione opposta di ridurre i vincoli, e non di introdurne di nuovi.
L’idea è utopica o, peggio, “cerchiobottista”? Non credo: il problema è già stato impostato in questi termini dal dibattito intercorso tra Luca Pesenti e Pietro Ichino (ilsussidiario.net, 14 luglio 2009); in più, la questione è affrontata dai più noti economisti del lavoro. Basta sfogliare The Economics of Imperfect Labor Markets, di Tito Boeri e Jan Van Ours (Princeton University Press, 2008): nel capitolo dedicato alle politiche per la famiglia, gli autori raccontano dei provvedimenti adottati in Norvegia (sì, nel cuore del sistema scandinavo…) per sostenere le famiglie con figli in tenera età.
Alle famiglie vengono assegnate risorse che possono essere destinate alla copertura dei costi degli asili nido oppure trattenute, per consentire a uno dei genitori di ridurre la propria presenza sul lavoro per prendersi cura dei figli. È chiaro che il provvedimento funziona solo se il mercato del lavoro è abbastanza flessibile da consentire allontanamenti temporanei dal posto di lavoro, ed è altresì vero che gli autori fanno notare che sono le donne, in larga maggioranza, a ridurre le ore di lavoro per il mercato.
Ugualmente, dai dati Oecd emerge che, anche grazie a interventi di questo tipo, è stato corretto un circolo vizioso del mercato del lavoro, in base al quale i Paesi con i maggiori tassi di occupazione femminile erano anche i Paesi con i tassi di fertilità più ridotti, e viceversa. Attualmente la correlazione è stata invertita: a tassi di occupazione più alti corrispondono anche tassi di fertilità maggiori [].
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Rimane vero che il nostro Paese, in queste classifiche, continua a occupare posizioni di retroguardia. Il che fa sorgere un dubbio: il successo delle politiche di sostegno alla libertà di scelta non dipenderà dalla “generosità” delle risorse che vengono destinate alle politiche familiari, piuttosto che dagli stigmatizzati pregiudizi ideologici dell’uno o dell’altro segno?
E, per fugare ogni sospetto di cerchiobottismo, vorrei essere chiaro: se fossi convinto che un tasso di attività femminile contenuto fosse l’esito della struttura delle preferenze esercitate dalle donne, probabilmente lo difenderei, quale che fosse la matrice culturale, politica, religiosa che lo avesse ispirato. È che ho il dubbio che a orientare le decisioni delle donne verso il mercato del lavoro (sia nel senso di una partecipazione “forzata” che di una astensione “forzata”) siano una serie di condizionamenti economici e istituzionali per rimuovere i quali il policy maker non ha fatto abbastanza.
Il dibattito sulle diverse proposte di politica fiscale (la riduzione delle aliquote sul lavoro femminile piuttosto che l’adozione del quoziente familiare) è ovviamente benvenuto, purché abbia come obiettivo una società in cui le donne siano effettivamente libere di scegliere il proprio grado di coinvolgimento nel mercato del lavoro.
Non “libere di andare a lavorare”, come sostengono i paladini del modello “antifamilista”, né “libere di rimanere a casa”, come suggerirebbero i sostenitori del modello “familista”, ma semplicemente, il più possibile, libere di scegliere se e quando andare a lavorare o rimanere a casa, per realizzare le proprie aspirazioni e valorizzare le proprie valenze, umane e professionali. O non è questa la via per massimizzare il benessere sociale?