Un deficit al 12,7 per cento del Pil nel 2009, e un debito pubblico in salita dal 113,4 per cento di quest’anno al 120,8 per cento nel 2010. Sono i numeri della Grecia, quelli che le sono valsi il declassamento del rating da parte di Fitch, che hanno diffuso allarme nei mercati mondiali e nelle stanze della Bce. Ma potrebbero esserci altri casi in un prossimo futuro: il presidente del Financial Stability Forum, Mario Draghi, ha messo in guardia sui debiti pubblici in scadenza. Che potrebbero aggravare e prolungare la crisi. Ilsussidiario.net ha fatto il punto con l’economista Mario Deaglio.
Draghi ha lanciato l’allarme sul debito pubblico in scadenza. Dobbiamo aspettarci una fase due della crisi ancor più violenta di quella che ha riguardato il debito privato?
Non so se sarà più violenta, perché il pubblico ha gli strumenti per ammorbidirla, ma potrebbe essere più grave e più lunga.
Il crac della Grecia conferma le parole del presidente del Financial Stability Forum. Papandreu ha detto che è perfino a rischio la sovranità nazionale del paese.
La Grecia condensa tutte le problematiche di una crisi derivante da un debito pubblico fuori controllo. Per contenere gli effetti esplosivi del loro disavanzo il governo dovrebbe tagliare la spesa pubblica che consente di vivere ad un buon terzo della popolazione. Ci vorrà un aiuto dall’esterno. L’Unione europea non sembra propensa a darlo perché allentare la disciplina monetaria potrebbe creare un pericoloso precedente di permissivismo.
Qual è secondo lei la strada maestra da percorrere?
Ognuno dovrebbe trovare da solo una soluzione, con i paesi creditori e le banche creditrici. C’è anche la possibilità che un aiuto possa venire da fuori dell’Europa, magari la Cina o qualcun altro.
Questa è la prima vera prova del nove per la Banca centrale europea?
Direi che è una crisi di tipo nuovo rispetto a quelle che la Bce ha affrontato fino ad ora. L’elemento essenziale è che si trova a dovervi far fronte da sola, senza un vero ministro dell’economia. Certe decisioni andrebbero prese in un contesto politico.
Cosa intende dire?
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Che un paese sovrano è diverso da un piccolo imprenditore della Brianza. Il tipo di impegni che un paese può prendere con chi gli ristruttura il debito sono complessi e diversificati e richiedono un orizzonte più ampio. Possono includere impegni a fare delle riforme ma anche impegni di carattere strategico e industriale. Se la Cina per esempio decidesse di fare della Grecia una sua testa di ponte in Europa, potrebbe intervenire in suo soccorso in maniera massiccia.
Quando si parla di debito pubblico vien da pensare subito all’Italia. Il nostro paese corre un rischio Grecia?
No, perché la situazione è molto diversa. Non dobbiamo guardare soltanto al dato complessivo del debito pubblico sul Pil, ma distinguere tra il cosiddetto deficit primario che ha valore negativo, perché le spese superano le entrate, e il deficit derivante dagli interessi sul passato. Per paesi come la Grecia e in misura minore l’Irlanda, la Spagna e forse il Portogallo, che hanno un deficit primario alto e un debito complessivo ancora basso, la diagnosi è di sicuro aumento del debito, perché in un momento di crisi ci sono spese ineliminabili mentre le entrate senz’altro si riducono.
Invece per l’Italia?
In Italia nonostante tutto abbiamo ancora un deficit primario prossimo allo zero, e per il momento stiamo beneficiando del fatto che i tassi di interesse sui mercati valutari e finanziari sono molto bassi. In questo momento, quindi, non abbiamo difficoltà a rifinanziare il nostro debito pubblico venuto a scadenza. Per questo la nostra situazione è strutturalmente migliore dei paesi che ho menzionato, anche se il nostro debito complessivo è più alto del loro.
Cosa dobbiamo temere di più tra le nostre voci di spesa? Forse gli ammortizzatori sociali?
No, perché al pari di altre è una voce di spesa consolidata. Quello che dobbiamo temere è un calo delle entrate. Quest’anno abbiamo provveduto con entrate eccezionali, come quelle derivanti dallo scudo fiscale. Ma il prossimo anno non ci saranno più e si tratterà di capire come fare. Ma non resta che procedere per orizzonti brevi.
Un po’ come sta facendo il governo, insomma.
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Sì, quella del governo è una strategia tutto sommato ragionevole nella situazione contingente: trovare qualcosa che costi poco o niente all’erario, ma che stimoli l’economia e faccia pagare più imposte. È la logica del “piano casa”, quello dell’ampliamento delle cubature: le famiglie che hanno risparmi per farlo devono poterlo fare, non costa niente al governo e mette in moto un meccanismo che produce un maggior gettito fiscale perché fa girare di più l’economia.
A proposito di banche. In Gran Bretagna si vuole aumentare la tassazione sui bonus dei banchieri. Che ne pensa?
Secondo me è una proposta preelettorale, fatta per rispondere al malcontento degli elettori di questo governo. I redditi medi e comunque non alti della popolazione si vedono penalizzati dal taglio delle spese, mentre i banchieri vanno avanti con i loro bonus e il loro stile di vita. Ma c’è il rischio che per incassare un po’ di simpatia dagli elettori, il governo vada incontro ad una perdita dal punto di vista della finanza. A rimetterci sarebbe il sistema paese.
Lei non ha davvero alcun dubbio sulla liceità di bonus così alti?
Ma questo è un altro discorso. La mia tesi è che dopo gli anni ’70 si è creata una nuova classe sociale, una nuova borghesia non più legata all’industria o ai singoli stati. Una classe che ignora la politica, ma che grazie alla sua competenza si è appropriata di una parte consistente del plusvalore che prima andava ai capitalisti tradizionali. La nuova borghesia è la protagonista di questa crisi nel senso che ne è l’artefice e al tempo stesso la prima imputata. È una borghesia singolarmente miope, perché ha replicato per vent’anni una strategia senza aver imparato nulla dai disastri che ha prodotto.
Come e dove agisce questa nuova classe di potere?
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La vedo operante non tanto nelle banche inglesi quanto in quelle americane, dove si tenta perfino di fornire giustificazioni teoriche per difendere bonus – cioè uno status di potere e di privilegio – che a noi sembrano grotteschi. I nuovi borghesi sono convinti che possono esserci stati degli incidenti di percorso, anche gravi, ma che l’economia va naturalmente a posto. Ma soprattutto, di fronte al fatto evidente di un’economia che non va a posto da sola, non hanno un’alternativa da proporre.
«Il sistema del credito – ha detto ancora Mario Draghi – sta diventando ancor più concentrato di quanto fosse prima della crisi». E i rischi aumentano. Anche in Europa?
Abbiamo avuto concentrazioni bancarie, che siano eccessive è difficile dire. Allo stato direi che siamo sufficientemente tranquilli, le nostre banche sono ben supervisionate e quelle italiane più degli altri paesi. Se gli stati sovrani, come rischia di avvenire per la Grecia e com’è stato per l’Islanda, si mettono a non pagare i debiti, bisognerà fare qualcosa per tenere a galla le banche. Se ci fosse un terremoto anche in Spagna, difficilmente le banche da sole ce la farebbero. Ma la Spagna ha un’economia relativamente grande e ben strutturata.
Una previsione?
Il primo trimestre dell’anno prossimo sarà cruciale e di grande incertezza, perché bisognerà vedere come i mercati digeriranno le domande di nuovo capitale che verranno dai governi. Anche da governi molto solidi come quelli di Francia e Germania.