La crisi della Grecia ha riproposto in modo drastico tutti i nodi irrisolti dell’eurosistema. «La realtà – dice a ilsussidario.net l’economista Paolo Savona – è che quando si ha una moneta unica i problemi sono comuni per tutti e le soluzioni devono essere cercate insieme». La parabola della moneta unica, come spiega Savona, ha mostrato tutte le sue contraddizioni e richiede un cambio di passo, che può venire solo dalla politica.
C’è un “peccato originale” che l’attuale situazione dell’euro, preso tra debito pubblico dei singoli stati e Patto di stabilità, sta scontando?
C’è indubbiamente un problema grave che non metterei in rapporto con l’euro ma col Patto di stabilità e sviluppo. Il Patto introduceva implicitamente una correzione agli obiettivi molto restrittivi assegnati dal Trattato di Maastricht alla Bce che riguardano il tasso d’inflazione e l’andamento dei prezzi. Voleva essere l’elemento di compensazione che rende possibile attuare politiche di sviluppo e aumentare le capacità di resistenza delle economie all’indebitamento privato e pubblico. In realtà ha sovrapposto nuove rigidità alla rigidità derivante dalla gestione della politica monetaria; e i paesi, sotto la spinta delle pressioni sociali e ora della crisi economica, si sono trovati in seria difficoltà.
Proprio per le sue rigidità non è mai stato applicato fino in fondo.
L’Ue ha chiuso un occhio e oggi il Patto di stabilità è violato da tutti. Non essendosi impostata una politica che assorbisse gli choc esogeni, per i paesi più deboli dal punto di vista del debito – non solo Grecia ma Italia, Spagna, Irlanda, Regno Unito… – i problemi si sono enormemente complicati.
Oltre ai problemi derivanti dal modo in cui è stato concepito – cioè ancorato al marco – che cosa ha penalizzato l’euro?
Il comportamento accomodante e grave degli Stati Uniti da un lato e quello della Cina dall’altro, che ha bloccato il rapporto di cambio dello yuan e ha impedito al mercato di aggiustarlo. Così quando il dollaro è debole o la Cina lascia scivolare il suo cambio, l’euro si rivaluta e questo peggiora ancor di più la situazione implicita nella non attuazione del Patto di stabilità. Senza politiche di sviluppo ci ritroviamo non solo a non avere avuto la spinta degli accordi europei, ma anche a subire una forte controspinta negativa derivante dalle politiche valutarie di Usa e Cina.
Dobbiamo rassegnarci a che la stabilità dell’euro vada a scapito della crescita?
No. Io sostengo la tesi che la Bce, senza abbandonare i suoi obiettivi antinflazionistici, non dovrebbe più usare il canale delle banche per creare la base monetaria, ma il canale estero. Come? Affiancando la banca centrale cinese nel sostenere il dollaro, cioè acquistando valuta Usa. In tal modo l’Europa potrebbe contare di più sul tavolo delle trattative internazionali, perché avrebbe dei dollari da usare per finanziare gli Stati Uniti o per indurre gli Stati Uniti a cambiare politica. Come ha fatto la Cina, che ha proposto agli Usa di usare i Diritti speciali di prelievo come riferimento della loro attività di indebitamento internazionale.
È possibile creare un unico debito europeo? A quali condizioni?
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No, perché è totalmente escluso dagli accordi di Maastricht. Esigerebbe un nuovo accordo. Diciamo meglio: la creazione di un unico debito vorrebbe dire che l’Europa decide di fare l’unione politica. Naturalmente qui ci riallacciamo alla preoccupazione che muove questa intervista: se a un certo punto l’Europa mostra di non considerarsi – come ha chiesto Angela Merkel – in qualche modo responsabile di ciò che accade in Grecia, avvia un processo di dissoluzione economica molto grave. Ma se un debito unico è impedito dal Trattato, ci sarebbero altre soluzioni intermedie.
Quali?
Mille volte abbiamo proposto di fare almeno un debito per realizzare le reti infrastrutturali europee, ma neanche quello è stato accettato. Poi a rincarare la dose è arrivata la crisi finanziaria americana con i suoi effetti. La realtà è che quando si ha una moneta unica i problemi sono comuni per tutti e le soluzioni devono essere cercate insieme. Ma se questo è vero, bisogna trarre la conseguenza che il Trattato oggi non garantisce più l’assetto europeo ottimale comportando conseguenze gravi per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione.
Lei nel 2001 parlava di un nuovo modello per l’eurosistema basato sul bilanciamento delle sovranità economiche. Oggi ne è ancora convinto?
Certamente. Bilanciamento stava a significare che cosa? Che non si può delegare la sovranità monetaria se non si delega anche la sovranità fiscale, ma per delegare la sovranità fiscale si deve arrivare al cuore del funzionamento dei parlamenti cioè della democrazia. Ecco perché si deve fare l’unione politica. La crisi della Grecia ha riproposto in modo prepotente questa problematica. E non basta chiudere un occhio sul Patto di stabilità, perché non appena la Germania avrà i conti in ordine – ed è opportuno rilevare che l’obiettivo del pareggio del bilancio fa parte ora della Costituzione – pretenderà dall’Italia e dal resto dei paesi europei la stessa cosa. A quel punto l’Italia avrà una corda al collo.
Esiste il rischio che la Cina – come è parso che potesse accadere per la Grecia – “aiuti” singoli stati europei?
Perché lo chiama rischio? Io lo auspico. È un rischio dal punto di vista degli equilibri geopolitici, perché vorrebbe dire che l’Europa tende a gravitare anche nella sfera di influenza politica della Cina. Ma proprio per questo motivo bisogna cambiare canale di creazione di base monetaria in euro: più che essere “sudditi politici” della Cina, diventeremmo partecipi della sua politica. L’Ue è andata in Cina a chiedere la rivalutazione dello yuan-renminbi, avrebbe invece dovuto chiedere la stabilizzazione del cambio.
Dallo scudo fiscale si attende il rientro di 110 miliardi di capitali, di cui 5,5 miliardi di entrate tributarie. Si può parlare di successo? La maggioranza sta inoltre pensando a una proroga fino ad aprile con un’aliquota almeno del 6 per cento. Cosa ne pensa?
Dal punto di vista del deficit pubblico e dell’indebitamento pubblico è certamente un successo, però se consideriamo che viene usata parte di questi fondi – il 5 per cento – per finanziare spese correnti, e che addirittura la finanziaria prevede la cessione di patrimonio per finanziare spese correnti, è evidente che stiamo distruggendo capitale per favorire i consumi; e in termini di sviluppo non è una scelta felice.
(Federico Ferraù)