Il Ministro Tremonti ha formulato la proposta di un’autentica rivoluzione fiscale, nel corso di un incontro con i sindacati, che è rimasta sottotraccia nei media, ma che merita invece di essere rilanciata e valorizzata, oltre che discussa criticamente. Nel suo intervento Tremonti ha riproposto un tema della sua riflessione passata e cioè l’opportunità di rovesciare la struttura delle entrate fiscali, aumentando la quota dell’imposizione sulle “cose” e diminuendo quella sulle “persone”.
È questa un’impostazione teorica che si aggancia ad una grande tradizione che risale almeno ad Hobbes e considera come base centrale del reddito imponibile il consumo effettivo, mentre nelle moderne società avanzate la questione non è tanto quella della scelta fra imposte dirette o indirette, quanto della sua composizione relativa nel gettito complessivo. La scelta fra tassare le “persone” piuttosto che le “cose” non può essere risolta in astratto ma deve essere riferita al contesto specifico a cui è riferita: in Italia la pressione fiscale su chi paga le imposte è molto superiore a quella ufficiale, per il fatto che quella ufficiale è calcolata in rapporto al Pil che include l’economia sommersa – su cui per definizione le imposte non vengono pagate – mentre invece bisognerebbe considerare il Pil al netto dell’economia sommersa.
La pressione fiscale in rapporto al Pil legale, che riguarda tipicamente il reddito da lavoro dipendente, è molto superiore rispetto a quella che considera il Pil inclusivo dell’economia sommersa, che è invece la grandezza a cui si fa riferimento nella statistiche ufficiali. Tutti convengono sulla necessità di ridurre l’evasione fiscale, ma poco si è discusso sul fatto se sia più semplice combattere l’evasione delle imposte dirette piuttosto che l’evasione dalle imposte indirette.
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A questo riguardo non può passare inosservato il grande successo dello “scudo fiscale”, attualmente valutato in circa 100 miliardi di euro, e che corrisponde in gran parte ad un’evasione fiscale, oltre che – in una quota non conosciuta – a capitali di origine illecita.
In questo quadro appare molto, molto plausibile che uno spostamento dell’imposizione fiscale sui consumi – come ad esempio quelli che sono certamente legati a redditi elevati, come grandi case, auto o yacht – potrebbe ridurre in modo più efficace l’evasione fiscale. In Italia la percentuale di imposte dirette in rapporto al Pil (sommerso incluso) è pari al 15,4 per cento nel 2008, mentre è pari all’11,3 per cento in Germania e all’11,4 per cento in Francia. Forse non è casuale che proprio in Francia, il paese che meglio sta attraversando la grande crisi in corso, la struttura dell’imposizione fiscale favorisca le imposte indirette (13,7 per cento del Pil in Italia e 14,8 per cento in Francia).
Ma l’aspetto forse più “creativo” della proposta Tremonti è quella di orientare in modo selettivo l’imposizione sulle attività o i beni “meritevoli”, come l’ambiente o la famiglia, rispetto alle attività e i beni che invece meritevoli non lo sono, anzi richiedono di incorporare il valore monetario di ciò che gli economisti chiamano “esternalità” negative, come l’inquinamento. Si coglie qui, non sappiamo se in modo consapevole, un’attenzione alle opportunità di incentivare la correzione del Pil in direzione di una maggiore attenzione alle dimensioni qualitative del vivere civile. La società moderna non può essere misurata solo sulla base di una performance – il Pil – che è figlia della misurazione puramente quantitativa, perché la dimensione qualitativa acquista un rilievo sempre crescente, quando non dominante. La qualità dei beni, da cui dipende la competitività dei beni e dei servizi, dipende in modo cruciale dalla qualità degli input necessari per produrli, in primo luogo il lavoro e il capitale umano, la risorsa centrale del nostro paese. La domanda centrale che la riflessione di Tremonti suggerisce è proprio questo: qual è il “potenziale” di capitale umano del nostro paese e in che modo possiamo accrescerlo?