«Vedo una politica come strumento per la conquista del potere, senza contenuti sociali, economici, e di rapporto con le persone, consumare la sua crisi definitiva. È la crisi di un sistema politico autoreferenziale». È netto il giudizio del segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni. Che rilancia l’idea di un patto fiscale tra cittadini e stato e ammonisce: niente tasse senza rappresentanza. Con un suggerimento al governo: deve mostrare più coraggio.
Agli Stati generali di Cisl e Uil Tremonti ha lanciato il programma di una rivoluzione fiscale: spostare il prelievi fiscale dalle persone alle cose, premiando i beni e le attività “meritevoli”. Lei ha risposto invocando un “patto fiscale”. Perché?
La proposta di Tremonti è ottima, ma il primo passo che si può e si deve fare è quello sul fisco. Oggi il fisco è inefficiente, costoso e ingiusto. Per questo occorre ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadino e stato, che appare gravemente compromesso. I coloni americani dicevano “no taxation without representation”. Non dico che occorra fare come loro, ma il fatto di non poter esprimere con le preferenze chi va in Parlamento è grave.
Vuole dire che oltre al prelievo fiscale occorre riformare il sistema di rappresentanza?
Sì, perché le due questioni – mancanza di rappresentanza e fisco ingiusto – sono legate e hanno sempre costituito un motivo di avversione verso le istituzioni. Oggi invece occorre più che mai coesione. Serve allora un nuovo patto, ma su basi nuove, dove concorrono tutti, maggioranza, opposizione e parti sociali. C’è la legge delega sul federalismo fiscale: la Cisl preme perché ci sia un rapporto il più stretto possibile tra tributi e servizi.
Come valuta la manovra finanziaria del governo?
Ha dato delle risposte importanti. Le risorse stanziate per i non autosufficienti, i provvedimenti a favore delle categorie di lavoro più esposte, come gli ultracinquantenni, i lavori atipici o troppo flessibili, tutti coloro che non possono cumulare i tempi di lavoro ai fini di fruire dell’indennità di disoccupazione o di altri ammortizzatori. Sono finanziamenti che noi abbiamo chiesto con insistenza e che sono arrivati.
Il tasso di disoccupazione ha raggiunto a ottobre l’8,2 per cento. Draghi a Padova ha detto che manca ancora una riforma degli ammortizzatori sociali. Qual è il suo commento?
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Sono in parte rassicurato perché il patto col governo è che gli ammortizzatori continueranno. Negli ultimi dodici, quindici mesi se ne è fatto un uso innovatore: penso all’allungamento, fino al raddoppio, della cassa integrazione ordinaria, che non ha avuto precedenti neanche quando ci sono state crisi gravissime, o alla revisione del sistema dei contratti di solidarietà, la cui copertura è passata dal 60 all’80 per cento.
Ma il governatore ha parlato di riforma vera e propria, mentre una delle critiche che vengono mosse al governo è di essersi limitato ad una strategia dei provvedimenti d’emergenza…
Quando Draghi parla di riforma degli ammortizzatori dice una cosa giusta. A mio avviso però la prima riforma da fare è quella di consolidare il funzionamento di quei provvedimenti che in gran parte si sono dimostrati efficaci, in primis la cassa integrazione in deroga. In questo senso la riforma non è altro che perfezionare ciò che abbiamo fatto negli ultimi 15 mesi.
Lei dà molta importanza alla cassa integrazione in deroga, perché?
All’inizio della crisi c’era chi voleva innalzare l’indennità di disoccupazione, ma io ero contrario, perché l’aumento dell’indennità di disoccupazione spinge l’azienda a licenziare, invece gli ammortizzatori in deroga inducono l’impresa a mantenere in essere il rapporto di lavoro. In questo modo ci siamo risparmiati almeno mezzo milione di nuovi disoccupati: ci sarà una ragione se la Francia è al 10 per cento, e noi abbiamo di poco superato l’8 per cento.
Rimane il problema di quell’1,6 milioni di persone a rischio: i giovani, gli autonomi, i contratti a termine e i collaboratori. Per loro cosa facciamo?
È lì che ora si deve lavorare sul serio. La richiesta di dar loro più sostegno in finanziaria è venuta da noi. Ma secondo me la finanziaria ha mostrato poco coraggio. Capisco le preoccupazioni di chi gestisce un debito del 118-120 per cento, molto vicino a quello del 130 per cento della Grecia, pur con tutte le differenze, ma che interesse abbiamo a mantenere un’economia così anemica da distruggere anche la possibilità di assorbimento del debito?
Cosa chiede?
Provvedimenti più azzardati per spingere l’economia e soprattutto favorire un accordo forte tra poteri centrali e poteri locali. Oggi invece ci sono ancora molti sprechi, come dimostrano la sanità e i troppi enti inutili.
Cosa pensa della proposta di un contratto unico per tutti a tutele crescenti?
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È un tema importante, ma non va giocato sul piano dell’azione legislativa: dovrebbe essere uno strumento che va offerto alle parti sociali nel regolare, come meglio credono, i loro rapporti. Le norme che davvero vivono e si reggono sono quelle che hanno la legittimazione delle realtà che dovranno servire.
Sulla vertenza di Termini Imerese come intendete muovervi?
Oggi c’è il tavolo e vedremo cosa dice l’azienda. Se Fiat dà garanzie di mantenimento dei posti di lavoro su basi fondate ed equilibrate, noi saremo d’accordo a che lo stato dia soldi. Diversamente se l’azienda intende attenersi soltanto a criteri di mercato, benissimo, ma lo faccia con soldi suoi.
Come vede l’ingresso di un’azienda straniera a Termini?
Se c’è un piano industriale serio, i posti di lavoro si mantengono e le condizioni sono garantite, non ci sono problemi. Però ripeto: ogni azienda può basarsi su regole di mercato, ma a quel punto deve stare lontano dai soldi pubblici.
Il paese attraversa un momento molto critico, diviso com’è da uno scontro politico intorno alla figura del premier. Qual è la sua opinione in proposito?
Un paese così lacerato non va da nessuna parte, soprattutto quando deve reggere il peso della crisi e ancor più quando si sforza di uscirne. Tutti si stanno riposizionando per avere un ruolo nella divisione internazionale del lavoro, Dio solo sa cosa noi stiamo facendo. In queste condizioni non si può avere un paese così diviso, e non si capisce in verità su che cosa. Io vedo una politica come strumento per la conquista del potere, senza contenuti sociali, economici, e di rapporto con le persone, consumare la sua crisi definitiva. È la crisi di un sistema politico autoreferenziale, questo è il punto.
Ora c’è qualche timida, reciproca apertura.
Sì, vedo nell’opposizione qualche segno di consapevolezza, spero che ci sia anche nella maggioranza. Mi auguro che entrambe si mostrino responsabili e facciano un accordo sulla riforma delle istituzioni e del welfare. Sono queste le cose che qualificano davvero le classi dirigenti.