Don Carrón ha sviluppato l’argomento toccato al capitolo 3 della Caritas in Veritate. È il tema che più ho trattato nei tanti incontri pubblici dedicati all’enciclica ai quali, in questi mesi, ho partecipato  in giro per l’Italia. L’ultimo a Milano, al Teatro Nazionale, tre sere fa. Proprio con Giulio Sapelli, tra gli altri, che su questo ha scritto prima di me. Il capitolo 3 è dedicato, come sapete, all’economia del dono, all’incontro e alla crescita con l’altro come categoria fondante di ogni scelta economica. Per il cristiano avvezzo alla dottrina non è una scoperta, anche se fa bene rinfrescarsi le idee. Ma, nel mondo dell’economia che bazzico io, bisogna affrontare due critiche entrambe taglienti. E bisogna provare a confutarle con argomenti concreti, non solo con la fede e l’adesione alla dottrina.



La prima critica, sin banale nella sua compunta e malcelata malizia ma in realtà pressoché eterna in quanto atemporale, è quella per la quale il dono è in realtà una scelta antieconomica per definizione. Riservata al no profit, al terzo settore, alla solidarietà verso chi non ha nulla o quasi. Certo, un dovere morale per chi lo persegue, un’edificazione del cuore e della coscienza. Ma non certo un atto economico. Esempio classico, Martino che divide il mantello col povero.

Seconda obiezione. Più puntuta, assolutamente e pervicacemente abbracciata a una certa interpretazione del pensiero soi disant liberista, in quanto non solo fondato sull’individuo, ma sul mero calcolo utilitaristico. Una versione spintissima del “birraio” di Adam Smith e della sua “mano invisibile”, innestata sulla teoria del valore di David Ricardo, del marginalismo di Wicksell    

Che poi diventa di Bohm-Bawerk e degli austriaci, fino alla scuola delle aspettative razionali di Bob Lucas e Thomas Sargent, e alla Efficient Market Hypothesis di Eugene Fama. Per me, che aderisco a tale scuola, è l’obiezione più seria.

Ma sono entrambe sbagliate. La dottrina cristiana ha posto nell’Uomo e nella sua centralità il fondamento morale dell’economia, ricordando in ogni diversa fase dello sviluppo storico come quel valore fosse un valore morale capace insieme di diventare valore aggiunto, non pura ma improduttiva testimonianza etica. Dividere il mantello con il povero crea valore aggiunto quando si affronta un’economia ancora sotto la linea di sussistenza, e il valore aggiunto non è solo quello della vita ma della precondizione dell’accesso alla dignità e al benessere. Potremmo ancor oggi scoprirlo eccome se riusciamo a strappare alla fame chi ancora ci muore in Africa, facendoli gradualmente entrare nel mercato.

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Usciti dalle mera sussistenza ed entrati nel mercato – che non esiste in natura ma si fonda su fiducia tra uomini e regole poste da uomini – vi rinvio ai puntuali esempi che trovate al capitolo 3 dell’enciclica, quanto alla dimensione morale delle scelte alle quali è chiamato il banchiere e il finanziere che sconta capitale scarso per il suo impiego nel tempo, o dell’imprenditore chiamato a investire. In questi casi è più evidente, che mettere l’uomo al centro comporta logiche di ritorno economico. Non asintotico come la pura rendita finanziaria, ma agganciato all’economia reale centrata sull’uomo, sulla sua crescita, sul suo capitale umano come precondizione per estendere e accrescere quello di chi verrà dopo di lui, interagisce e coopera oggi con lui.

 

La seconda obiezione nasce da quella che per me è per tanti versi la vittoria degli antiliberali sui liberali veri. È la caricatura di Adam Smith, quella che dimentica che prima della Ricchezza delle Nazioni – in cui per altro l’espressione “mano invisibile” compare una sola volta – insegnava teoria dei sentimenti morali, come tutti gli altri illuministi scozzesi con lui e prima di lui, per altro. Non ha mai letto Hayek e Mises, chi sostiene che gli individui le cui scelte “dal basso” sono da essi indicati come forze vere e uniche del mercato al posto di quelle di chiunque “illuminato dall’alto”, non siano “persone” i cui valori, la cui morale e la cui tradizione contino nulla, di fronte al mero calcolo felicifico. Esattamente come Lucas e Barro non hanno mai affermato che gli individui sono perfettamente razionali, né Fama ha mai scritto che i mercati in sé e per sé sono perfettamente efficienti: hanno mostrato che individui, imprese e mercati tendono a incorporare nelle loro scelte le informazioni di cui dispongono, e dunque hanno ammonito sul fatto che dando loro informazioni asimmetriche ci si espone a dei guai. Esattamente come è successo con l’attuale crisi.

 

Non sono solo i liberisti in caricatura ma molti cattolici per primi, a cadere nella facile trappola di indicare il liberismo come irriducibilmente avverso e addirittura nemico all’economia del dono. Sbagliano. La dottrina cattolica, personalista e sussidiarista, diffida dello statalismo e della presunzione tecnocratica: esattamente come i veri liberali. Per il semplice fatto che non sarebbe esistito liberalismo, senza cristianesimo in Europa e nel mondo. Immaginare e perseguire il ritorno economico di medio e lungo periodo fondato sulla crescita umana, esclude semplicemente teorie e prassi del rendimento economico a breve massimizzate perché non-umane, puramente algoritmiche, sospese a metà tra Faust e Nietzsche. Come capita, purtroppo, a tanti giovani – ormai non più – bankers che ho conosciuto negli ultimi 20 anni.