Mentre la Cnbc gridava che il rischio di meltdown globale rappresentato da Dubai è tutt’altro che svanito, forse essendo a conoscenza di qualche particolare che verrà svelato la prossima settimana al meeting tra Dubai World e creditori, la giornata di ieri ci ha regalato un vero e proprio campionario di come governi e istituzioni sovranazionali stiano preparandosi a prendere in piena fronte il treno che sta sbucando dal tunnel e le cui luci di posizione vengono scambiate per segnali di ripresa.
Giungono, infatti, altre perdite di posti di lavoro a novembre in America nel settore privato, più gravi del previsto sebbene inferiori a quelle del mese precedente. Secondo l’indagine mensile Adp Employment Report sono stati persi 169mila posti di lavoro, dopo i 195mila di ottobre, dato leggermente rivisto in meglio. In media gli analisti prevedevano una perdita di 155 mila posti: ma domani l’amministrazione americana pubblicherà i dati ufficiali mensili sulla disoccupazione, relativi a novembre e che includono anche il settore pubblico.
A Wall Street i futures stanno già cominciando a deprimersi con ampio anticipo. Ma se l’America naviga a vista, speranzosa in un rafforzamento del dollaro che, legato al deficit da incubo, porterà solo il rischio di iper-inflazione, l’Europa dà il meglio di sé.
Sui tassi di interesse dell’area euro è attesa una conferma al minimo storico dell’1%, anche se la Banca centrale europea potrebbe iniziare una progressiva rimozione di alcune delle misure supplementari che nei mesi scorsi ha approntato per aiutare l’economia, che prevalentemente fanno leva sulla liquidità: ovvero, meno soldi per mettere a posto i Core Tier 1 delle banche. Le quali, essendo ridotte non male, ma peggio, restringeranno ancora il credito a privati e imprese: l’opposto di ciò che sarebbe servito.
La disoccupazione, infatti, si consolida anche nell’eurozona ai massimi storici, 9,8%o a ottobre, valore – secondo i dati Eurostat – che equivale a tre milioni di disoccupati in più rispetto a un anno fa. D’altronde per fronteggiare la crisi, nei mesi scorsi la Bce non aveva trovato di meglio che assicurare al sistema creditizio abbondante liquidità a condizioni stracciate ma nelle ultime settimane diversi esponenti dell’istituzione di Francoforte hanno espresso la preoccupazione che continuare troppo a lungo potrebbe favorire l’insorgere di nuove destabilizzazioni o crisi. Davvero dei geniacci questi burocrati.
Per questo già il mese scorso il presidente Jean-Claude Trichet aveva avvertito che a dicembre si sarebbe deciso se iniziare una progressiva rimozione, scelta osteggiata da molti governi e dal Fondo monetario internazionale, vero supermarket di carta straccia spacciata per denaro reale, che invece sostengono che sia più rischioso muoversi troppo in anticipo sulle exit strategies, piuttosto che troppo tardi. Scegliere la tempistica giusta non sembra un’opzione percorribile per lor signori, peccato siano profumatamente pagati per questo.
CONTINUA A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA IL SIMBOLO >> QUI SOTTO
Ma non è tutto. Sempre ieri in sede Ecofin si è raggiunto l’accordo sul nuovo sistema di regolamentazione europeo, definito dal ministro dell’Economia francese Christine Lagarde, «il compromesso più chiaro possibile, grazie al quale stiamo creando una vera autorità di supervisione nei tre ambiti, ossia banche, assicurazioni e borse». Ci mancava solo un altro grande fratello miope per bloccare ancora di più i mercati e creare le condizioni per nuove crisi, figlie delle banche che non sanno usare derivati e cds e non degli hedge funds che invece sanno usarli eccome.
Ma vediamo qualche dettaglio. In particolare «in caso di crisi c’è una tripla protezione per assicurare agli Stati membri la sovranità in materia di bilancio». La prima è che sia il Consiglio – e non la Commissione Ue – a dichiarare lo stato di crisi. Inoltre, se le misure imposte dalle autorità hanno un impatto sulla spesa, «la decisione può essere discussa al Consiglio e revocata con una maggioranza semplice, di 14 voci su 27», spiegano le fonti, aggiungendo che «in casi estremi la decisione si può portare al vertice dei capi di Stato».
Inoltre, nel caso in cui non ci sia una crisi in ballo ma solo una decisione delle autorità di vigilanza contestata da uno Stato membro, alla prima spetta una sorta di “onere della prova”. Verrebbe da dire, salvate questa gente da se stessa ma è meglio dire, salvate noi da loro.
“Onere della prova”, sembra un processo, siamo forse terminati nel giallo di Garlasco senza saperlo! In compenso l’Europa, quella reale, scricchiola: i cds dell’Irlanda stanno risalendo in maniera preoccupante e la Grecia è ormai sull’orlo del default tecnico dopo aver disatteso la promessa fatta a Bruxelles di varare misure concrete antideficit entro ottobre.
La “forbice” (spread) fra i BOT greci e quelli tedeschi a 10 anni è saltata a 178 punti-base: il che significa che il governo di Atene, per farsi prestare denaro dai mercati, deve offrire quasi il 2% di interessi in più di Berlino sui suoi titoli di debito pubblico. Il rincaro del debito è rovinoso per un Paese economicamente debole, nel pieno di una crisi mondiale dove i debiti pubblici più potenti (vedi gli Usa) faranno una concorrenza spietata: 18 miliardi di euro di debito pubblico greco stanno per andare a scadenza e andranno rinnovati nel secondo trimestre del 2010.
Quale strada per il governo socialista greco se non quella dei tagli sanguinosi, i quali però porteranno ulteriore tensione sociale in un paese già pervaso da forti pressioni interne. Non si può svalutare, né stampare moneta: si può, però, svendere gli assets del paese all’estero visto che un deficit di budget del 13% sul Pil non consente molti margini di manovra.
E sta già accadendo: la Cina, di fatto, è pronta a comprarsi la Grecia a prezzo di saldo: i porti del Pireo sono ormai della Cosco, pronta a creare un hub cargo verso il Mar Nero. Pechino non comprerà bond governativi greci come spera il Pasok al governo, vuole gli assets e li vuole pagando poco, roba da take-away.
CONTINUA A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA IL SIMBOLO >> QUI SOTTO
Hanno voglia i lavoratori portuali a protestare, con menti come quelle dell’Ecofin che triplicano gli enti di regolazione dei mercati invece di intervenire sulla crisi, meglio forse essere divorati da Pechino, nuovo stato Ue attraverso il suo protettorato economico ellenico. Ma i giornali non parlano di questo, parlano del trans Brenda!
Questa è l’Europa, non quella dell’Ecofin che gioca a chi si fa lo sgarbo peggiore tra asse renano e inglesi. Lo spread dei titoli di Dublino non deve farci stare affatto tranquilli, così come il rischio di insolvenza sempre crescente dell’Ucraina e i guai seri che dovrà affrontare nel primo trimestre del prossimo anno il sistema bancario tedesco, la cassaforte d’Europa.
La Gran Bretagna, poi, vedrà una netta svalutazione della sterlina entro marzo-aprile e già si vocifera del fatto che sarà il primo paese del G10 a dover affrontare una dura crisi fiscale – su cui scommettere per far soldi, ovviamente – determinata da proiezioni di banche d’affari, Morgan Stanley in testa nel suo outlook 2010, che prefigurano come sempre più probabile il rischio di assenza di maggioranza in grado di governare alle elezioni generali di maggio.
L’Italia, va beh, si commenta da sola, basta guardare il debito pubblico e ascoltare le parole di Mario Baldassarri all’ultima puntata di Ballarò: «In cassa non c’è più una lira». Evviva. Soprattutto l’Ecofin.