In Italia c’è troppa famiglia. Una sfera di rapporti troppo ristretti che provoca sfiducia verso l’esterno, che ostacola l’autonomia degli individui, anche economica; che sfavorisce la propensione al rischio e la meritocrazia. Ma soprattutto, non fa lavorare le donne. E tutti ne paghiamo le spese, in termini di produttività. Il modello sociale italiano centrato sulla famiglia, in altre parole, è responsabile dei ritardi del sistema paese.
È questa, in sintesi, la tesi che gli economisti Alberto Alesina e Andrea Ichino hanno affidato al loro ultimo libro, “L’Italia fatta in casa”. Su di esso è già intervenuto l’economista Luigi Campiglio. Lo fa oggi Achille Vernizzi, docente di Statistica economica nell’Università di Milano.
Francesco Giavazzi, rileggendo le pagine di Alesina e Ichino, ricorre all’espressione che secondo lui è più emblematica del ruolo negativo della famiglia italiana: il “familismo amorale”. Non è un po’ troppo?
È un’interpretazione, e come tale è opinabile, com’è opinabile che il modello sociale italiano sia effettivamente centrato sulla famiglia, non sono un sociologo, non saprei dirle. Quello che è successo è che la famiglia bene o male in Italia ha tenuto e sta ammortizzando gli aspetti più pesanti della crisi. Io non lo vedo come un fatto negativo, anzi. Come possiamo dire che un altro sistema che avesse fatto a meno della famiglia ci avrebbe avvantaggiato? Mi sembra una lettura quantomeno controfattuale. Che in una realtà sussistano dei luoghi dove la solidarietà è vissuta e sperimentata, in tutte le sue implicazioni pratiche, per me non è un male. Come si fa a sostenere che una società polverizzata, costituita da atomi individuali sia meglio? Ci sentiamo davvero di sostenere che società di alcuni paesi nordici sono migliori della nostra?
“Il costo maggiore di una società centrata sulla famiglia – dice Giavazzi nel suo articolo – è il peso straordinario che incombe sulle donne”. È un bene – si chiede – che tante donne intelligenti scelgano il part-time o abbandonino una prospettiva professionale per dedicarsi alla casa e alla famiglia?
Qui si tratta di capire cosa intendiamo per famiglia e cosa vorremmo che fosse. In un modo o nell’altro un modello di riferimento uno se lo sceglie, magari partendo dalla propria esperienza e chiedendosi quali siano tutti i fattori in gioco che incrementino effettivamente la propria e l’altrui umanità, senza trascurane nessuno, come la Caritas in Veritate mi sembra continui ad insistere. Ognuno di noi potrebbe liberamente sostituire la realtà vera con quella che vorrebbe, e rimproverare la prima di non essere come la seconda, ma con quali risultati effettivi? Lo abbiamo già fatto con la finanza astratta dall’economia reale, vogliamo continuare con questo metodo disastroso?
Dunque il dato di esperienza da cui parte lei qual è? Quello “incriminato”, vien da supporre.
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Purtroppo per me, direi di sì: la famiglia come luogo naturale di solidarietà dell’uomo. L’alternativa che mi sembra suggerita è quella di un paradigma individualistico, per cui i rapporti tra persone diventino di tipo concorrenziale. Rapporti concorrenziali anche dentro la famiglia, s’intende, non fuori di essa. Ecco perché le si rimprovera di non far lavorare le donne, o di alimentare un welfare parallelo a scapito di un welfare statale sviluppato. Ma l’alternativa al “familismo amorale” è che lo stato intervenga a fare il bene della gente. Mi viene in mente Tocqueville e la sua critica al potere che sapendo quale fosse il bene delle persone avrebbe finito – come è successo – per svuotarle del loro desiderio e della loro voglia di fare.
Ammetterà che se le donne stanno in famiglia lavorano di meno. O no?
Qui abbiamo in mente degli schemi un po’ rigidi. Che la donna acquisti sempre dignità e possibilità di realizzarsi è auspicabile e necessario. Che lo debba fare stando forzosamente in casa o forzosamente lavorando fuori casa, mi sembra una prevaricazione dispotica. Le donne, tutte le persone, devono poter avere la libertà di scegliere. Per me la famiglie è una società che deve avere la libertà di poter decidere l’offerta di lavoro complessiva, a prescindere da chi debba operare fuori casa o in casa. E non credo che questo lo si realizzi stabilendo ad esempio aliquote differenziate a seconda del sesso, ma considerando la famiglia finalmente come una società in cui due persone si sono messe assieme perché si vogliono bene, al punto da coinvolgere nel loro rapporto di solidarietà altre persone (i figli, i genitori, i fratelli, magari portatori di handicap ecc.) – senza che la loro scelta sia penalizzata.
Così veniamo al dunque: il problema fiscale.
La fiscalità deve riconoscere questa autonomia e questo spazio di operosità sociale. Il quoziente familiare può essere uno strumento in tal senso, si intende purché applicato con una scala di aliquote adeguata e con un reddito esente pro-quota non puramente simbolico. Il quoziente disincentiverebbe l’offerta di lavoro complessiva della famiglia? Io non lo credo se l’obbiettivo è l’offerta complessiva di lavoro della società-famiglia. Del resto la preoccupazione degli autori è che le donne vadano a lavorare fuori dalla famiglia.
Si spieghi.
Il quoziente può essere già implicitamente applicato nel caso di lavoro autonomo: marito e moglie fanno una società al 50 per cento e i redditi vengono divisi in due, a prescindere da chi effettivamente produce gli utili stessi. Se lo possono fanno i lavoratori autonomi, perché non possono farlo le famiglie con lavoro dipendente? Che a lavorare ci vada solo il marito o solo la moglie o più uno dell’altra, deve diventare irrilevante. Anzi: con il quoziente potrebbe addirittura incentivare la partecipazione al mercato del lavoro dei figli, perché il reddito col quoziente viene accumulato e diviso.
Può fare un esempio?
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Se ora un figlio percepisce un reddito appena superiore a 2.840,51 euro l’anno, non è più fiscalmente a carico, non si possono più detrarre o dedurre le spese sanitarie, le tasse universitarie ecc. effettuate per lui e lui, di fatto, non le può dedurre o detrarre perché non ha abbastanza capienza. Mi chiedo: può allora essere autonomo con redditi di tre-quattromila euro all’anno? Figuriamoci con 2840,51! Non scherziamo. Quindi qualsiasi genitore di buon senso chiede al proprio figlio di non guadagnare oltre la soglia dei 2840 euro annui oppure di lavorare in nero. Col quoziente invece il figlio con un suo reddito entra anch’egli nel cumulo familiare, si ottengono benefici fiscali secondo il carico e le famiglie con più figli non sono penalizzate.
Dunque è un sistema più equo. E le donne?
È un sistema che scoraggia il lavoro della donna, dai dati statistici è così. Ma non credo proprio che lo sia per il sistema di tassazione vigente in Italia. Germania e Francia, con sistemi fiscali più family oriented di quello italiano hanno tassi di partecipazione delle donne al mercato del lavoro più alti che non nel nostro Paese. Ma forse i problemi da noi sono altri. Non abbiamo gli asili nido familiari per esempio, non li abbiamo nelle aziende. La nostra concezione di asilo nido è rigidamente schematica e statalista. Mi scusi se faccio riferimento ad un ricordo personale…
Prego.
Ora si parla di Tagesmutter (letteralmente, “mamma di giorno”, ndr) ma nel 1981 nella civilissima Trento, quando nacque mia figlia e mia moglie insegnava all’università, mi diedi da fare per sostenere un progetto di Tagesmutter. Mi fu detto che i microasili familiari avrebbero alimentato uno squallido mercato dei bambini e che l’unica garanzia era l’asilo nido “pubblico”. Già, facciamo solo questa considerazione, allora una madre guadagnava in media 900mila lire al mese e un bambino al nido del comune costava all’ente pubblico la bellezza di un milione e mezzo: come poteva essere pensabile dare l’asilo nido comunale a tutti i bambini? Con ciò è detto tutto. In Germania hanno inventato le “mamme di giorno” nelle case perché costa meno ed è più elastico, dà lavoro a molte madri con un bambino e offre un servizio prezioso alle loro vicine che hanno interesse a proseguire nella carriera lavorativa. Ma in Germania allora avevano inventato anche il congedo parentale di tre anni retribuito con l’equivalente della pensione sociale, pensando che il tempo dedicato dal genitore al proprio figlio sia comunque un investimento sociale.
Se la famiglia italiana è un valore, possiamo misurarne il contributo alla ricchezza del paese?
Anche su questo forse dovremmo riflettere un attimo. Il Pil è davvero l’unica misurazione della ricchezza del paese? Molti economisti hanno più di un dubbio. La famiglia è un luogo dove le nuove generazioni hanno il primo incontro con la realtà, si formano e si attrezzano per entrare in una società composita e variegata. La famiglia è il luogo della prima formazione del capitale umano. Siamo sicuri che, ai fini del benessere della persona e della collettività, sia totalmente indifferente ai fini dell’educazione e dello sviluppo umano e relazionale di una persona nuova, che questa avvenga in una trama di relazioni affettive o all’interno una qualsiasi altra agenzia educativa (asilo nido ecc.)? Io non vorrei correre questo rischio, preferirei lasciarlo alla libertà di ciascuna famiglia e vedo con terrore un demiurgo che pretenda di sapere quale sia il bene delle famiglie, e sulla base di teorie o di modelli ci venga a spiegare quale sia un atteggiamento corretto. O capiamo che il tempo dedicato all’educazione, alla cura, all’assistenza, delle persone crea benessere anche se non è monetizzato nel Pil, o la nostra società è destinata ad una aridità disastrosa.