L’Italia è arrivata al 35° posto. Sì, dall’inizio di gennaio 34 Paesi hanno approvato prima di noi piani di stimolo dell’economia o del sistema finanziario in particolare. Il tutto per scongiurare il collasso delle loro economie. Sono stati varati, per ora, interventi per un importo complessivo di 2.250 miliardi di dollari. Oltre ai piani di Barack Obama, al vaglio del Congresso, ci sono i massicci stanziamenti della Cina (il 6% circa del Pil) ma anche l’intervento sui consumatori scelto da Tokyo: circa 100 euro in tasca per ogni giapponese per sostenere i consumi. Il risultato? Non disprezzabile se, come sostiene Ubs, la massiccia iniezione di capitali ha evitato un’ulteriore frana del 2,8% del Pil mondiale.
Ma questa pioggia di interventi di ogni tipo, soprattutto sul fronte delle banche (garanzie sul credito, interventi sul capitale, creazione di bad bank e così via) rischia di far resuscitare uno spettro che sembrava sepolto una volta per tutte: il protezionismo. O, peggio, il nazionalismo economico.
A prima vista non c’è assolutamente nulla di illogico o di maligno nel privilegiare le industrie di casa. O a indirizzare il credito bancario verso le aziende del proprio Paese. Così come risulta più che comprensibile lo slogan “British jobs for British workers” risuonato nei porti dell’Inghiltrerra del Nord contro i lavoratori italiani. Ma l’escalation, politicamente così popolare, può avere esiti infernali, come dimostra il precedente del 1930 quando Il Congresso Usa approvò la legge proposta da Reed Smoot e William Hawley che prevedeva l’inasprimento delle tariffe doganali. Forse la misura fatale per trasformare la recessione nella grande depressione. Eppure, alla vigilia del varo della legge, 1.028 economisti americani misero in guardia i parlamentari contro le conseguenze di una scelta del genere. Invano: quando la macchina del nazionalismo si mette in moto, non è facile fermarla. Una volta uscito dal suo sepolcro, lo spettro del protezionismo non si fa addomesticare facilmente.
I segnali, al proposito, non sono positivi. Il neo ministro del Tesoro americano, Tim Geithner, ha lanciato pesanti moniti nei confronti della Cina. La Francia, dopo aver lanciato un fondo sovrano a sostegno delle proprie imprese, intende varare aiuti destinati alla sola industria domestica. In Gran Bretagna ed in Germania le banche, in pratica nazionalizzate, sono destinate inevitabilmente ad essere condizionate dalle scelte dell’esecutivo. Un po’ dappertutto, dalla Svizzera alla Grecia, si moltiplica la moral suasion ai banchieri perché concentrino il credito alle sole imprese domestiche.
No, non è affatto detto che la storia si ripeta. Il buon senso dovrebbero insegnare che le barriere doganali non favoriscono, bensì deprimono la creazione di ricchezza. Inoltre, a giudicare dai numeri, il problema non sembra proprio quello di frenare la spinta all’internazionalizzazione che tanta parte ha avuto nella crescita del Pil. Quest’anno il commercio mondiale rischia di subire la prima battuta d’arresto dal 1982. Il flusso di capitali verso i mercati emergenti è calato, nel 2008, di 165 miliardi di dollari rispetto al record di 929 miliardi del 2007. È la più pesante battuta d’arresto da un quarto di secolo. Ma il 2009 promette di battere il primato. Logica vorrebbe, in una situazione così a rischio, che ci si impegnasse per una risposta comune, coordinando i piani di intervento bancari ed economici, rafforzando regole e controlli comuni. Ancor più utile sarebbe mettere in comune le risorse, almeno a livello regionale, facendo scattare, ad esempio, fondi straordinari a livello Ue. Terzo, ma non meno importante, rispondere con un accordo sul Doha round, a partire dall’agricoltura.
Purtroppo, per ora, non avviene nulla del genere al di là delle parole. L’Europa, in particolare, stenta a fare un salto di qualità dalla semplice sfera monetaria. Gli aiuti all’auto, in questa cornice, rappresentano un fallimento grave. Che senso ha voler imporre regole comuni in materia di inquinamento per la Ue se Bruxelles non si rivela in grado di imporre standard ed incentivi comuni per i produttori? Non resta, al solito, che sperare nella leadership, seppur ammaccata, degli Usa: tocca a loro dare il buon esempio, evitando di alzare barriere suicide al suono del “buy American”. Speriamo che, dopo gli iniziali tentennamenti, lo capisca. Altrimenti, il germe dell’egoismo provocherà un’epidemia di disastri.