«Attenzione a non sbagliare un’altra volta e a far oscillare il pendolo dell’analisi del capitalismo manifatturiero italiano dalla retorica del declino di qualche anno fa, all’esaltazione acritica di oggi. Se questa oscillazione produce oggi una guerra tra capitalismo dei territori, grandi imprese e finanza non si va da nessuna parte, perché non per bontà ma per destino sono costretti a convivere». Aldo Bonomi, direttore di Aaster, un istituto di ricerche sociali sul territorio, non ha bisogno di troppe presentazioni: è uno dei più attenti conoscitori dei meccanismi di crescita dello sviluppo locale e delle logiche economiche con sui si è costruito quel sistema manifatturiero italiano che oggi viene osservato e blandito come uno dei punti di resistenza contro la crisi globale.



Così quando gli si chiede un giudizio sui dati che emergono dal Rapporto sulle piccole e medie imprese della Fondazione per la Sussidiarietà, mette subito in guardia da facili entusiasmi e un po’ provocatoriamente dice: «Il Rapporto descrive dei processi reali, ma non vorrei che fosse preso a prestito dalla retorica di questi tempi: sarebbe meglio per tutti vedere i processi reali e tornare a Marx».



A Marx?

Sì proprio ai classici, al processo denaro-merce-denaro: prima abbiamo pensato di poter produrre denaro senza passare per le merci, adesso pensiamo di produrre merci senza passare per il denaro.

Eppure la politica vede oggi questo mondo di piccole e medie aziende come un’ancora di salvezza contro la crisi. Non è così?

Lo è, ma a patto che si guardino i processi reali, che sono complessi e non l’oscillazione di quello che definisco il pendolo della retorica.

Cioè?

Per come si è costruito il capitalismo dei territori oggi la contrapposizione tra grandi e piccoli, tra Nordovest e Nordest non ha più senso. Quel mondo che noi immaginiamo ancora fondato su distretti produttivi si è evoluto e si è aperto. Si è trasformato in un sistema economico e anche sociale basato su piattaforme territoriali produttive, logistiche, che tengono insieme piccole e medie aziende e nuove imprese leader o grandi imprese preesistenti che ne costituiscono l’ossatura. E tra questi sistemi che si gioca la competitività.



Insomma non è Fiat contro tutti?

È così solo all’apparenza e solo se passiamo dalla lettura dei processi economici che noi ricercatori abbiamo fatto in questi anni ai voli nel cielo della politica. Ma a Nordovest non c’è la Fiat, c’è una piattaforma produttiva Torino-Canavese nel quale c’è sì la Fiat e ma insieme ad essa una rete di 1200 imprese e 88mila addetti che formano un sistema. E altrettanto si può dire, per restare a Nordovest, del sistema territoriale Cuneo-Alessandria-Genova, della Pedemontana lombarda o, per passare a Nordest, della Pedemontana Veneta. In Italia ci sono almeno dodici di queste piattaforme che competono nella globalizzazione. Ognuno ha le sue imprese di riferimento che hanno verticalizzato verso l’alto i sistemi una volta più decentrati.

Eppure nel Rapporto emerge una qualche differenza tra Nordest e Nordovest: il primo più attaccato ai valori tradizionali delle piccole e medie aziende, il secondo più vicino a quello delle grandi.

Chiaro che una cosa è un tessuto produttivo che si è costruito con il “disordine” dal basso in una logica che, come dice il Rapporto, è quella della sussidiarietà, un’altra sono sistemi dove pesa l’eredità fordista e una cultura più di “ordine dall’alto”. Ma sono retaggi di mondo ormai che ormai sa benissimo che nella globalizzazione ci si sfida non solo e non tanto attraverso le imprese quanto attraverso i territori e la loro capacità di essere competitivi.

A Nordest, però, la manifattura ha ancora un peso enorme. In provincie come Treviso e Vicenza qualcosa che sfiora il 45% del Pil viene ancora dall’industria. Come può affrontare la crisi questo mondo?

Credo che il problema sia proprio quello di creare un capitalismo delle reti che affianchi la manifattura e renda competitivo il territorio: se l’economia dei servizi non innerva quella industriale allora sorgono i problemi. Dopo avere esaltato il disordine creativo che viene dal basso che ha fatto proliferare le imprese, che ha costruito un sistema economico e sociale straordinario, adesso è il momento che questo trovi una via per non entrare in conflitto, anzi direi per costruire, una vera e propria piattaforma produttiva efficiente. Se capitalismo dei territori e capitalismo delle reti entrano in conflitto, sono davvero guai per tutti.

Perché?

Perché queste piattaforme produttive hanno bisogno di modernizzarsi. Questo significa che devono avere infrastrutture logistiche con una programmazione degli snodi necessari al territorio, devono avere cultura, università di livello, multiutilities avanzate di grandi dimensioni che ormai sono strategiche per lo sviluppo locale e anche sistemi bancari e finanziari. Senza questo sono destinate a perdere nella competizione.

Ma queste iniziative nascono soprattutto nei territori di grande impresa o nelle città più grandi, più difficile che arrivino da un’aggregazione dal basso…

È vero che il processo è più difficile. Ma è altrettanto vero che può anche nascere e fare da collante a grandi aree metropolitane, come ormai sono divenuti di fatto molti di questi territori. La sfida non è da poco: è forse questo uno dei banchi di prova dell’efficienza di quei meccanismi di sussidiarietà che hanno fatto crescere questo mondo.

(Alessandra Carini)

(Repubblica 9 febbraio 2009)