Normalmente chi si occupa di economia e finanza legge come primi giornali della giornata quelli anglosassoni, ovvero Wall Street Journal e Financial Times. Poi, a cascata, quelli europei: Faz, Suddeutsche Zeitung, Le Monde, El Pais. Difficile, invece, concentrarsi in una rassegna stampa seria e ragionata dei giornali austriaci. Un errore. Grave, in questi giorni. Ma partiamo dal principio.
La scorsa settimana il ministro delle Finanze austriaco, Joseph Pröll, ha infatti messo in atto un disperato tentativo di racimolare 150 miliardi di euro per un piano d’intervento per l’ex blocco sovietico a rischio default: non stupisce, visto che l’Austria ha prestato 230 miliardi di euro a paesi di quella regione, qualcosa come il 70% dell’intero Pil austriaco. La Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo valuta il tasso di debiti negativi – ovvero, di fatto inesigibili – al 10% con possibilità di arrivare al 20: peccato che una percentuale del 10 già rappresenta il crollo tecnico del mercato finanziario austriaco, come scriveva il quotidiano viennese Der Standard.
Eccoci, quindi, l’aggancio con il precedente richiamo alla lettura della stampa austriaca. Da alcuni giorni, infatti, oltre le Alpi i quotidiani parlano molto chiaro rispetto al futuro di due banche: Bank of Austria e la sua proprietaria, ovvero Unicredit, rischierebbero infatti «una Stalingrado monetaria» se le istituzioni internazionali non porranno in atto un piano di aiuto e salvataggio per paesi come la Lituania, l’Ucraina e la Repubblica Ceca, debitori e potenziali insolventi.
D’altronde, basta guardare ai dati. Stephen Jen, capo del monetario alla Morgan Stanley, valuta infatti in 1,7 trilioni di dollari la mole di denaro presa a prestito dall’Europa dell’Est, quasi tutta su short-term maturities. Ovvero, da ripagare in fretta. Basti pensare che entro quest’anno dovrebbero essere ripagati agli istituti europei finanziatori, qualcosa come 400 miliardi di euro: buona fortuna, il default è alle porte visto che il mercato del credito è una finestra sbarrata e il Fondo Monetario Internazionale è già corso in soccorso di Islanda, Ucraina, Pakistan, Bielorussia, Lituania e Ungheria (e ora tocca alla Turchia) dissanguandosi.
Non se la passa meglio la Russia che deve ripagare 500 miliardi di dollari di prestiti contratti dagli oligarchi, peccato che il rublo vada a picco, economia e Borsa pure e soprattutto visto che il budget del 2009 è stato elaborato basandosi sul costo del barile di petrolio – il cosiddetto Brent degli Urali – a 95 dollari, quindi un input importante per la casse di Mosca. Solo che oggi il petrolio viaggia sui 33-34 dollari e molti analisti parlano di 25 dollari al barile entro aprile-maggio: un bagno di sangue.
Insomma, o si salva l’Est oppure salta tutto. Ma il fatto che la Germania, attraverso Peer Steinbruck, abbia già detto all’ultimo vertice dell’Ecofin che quello del default dell’ex blocco sovietico è «un problema austriaco e non dell’Ue» aggiunge preoccupazione a preoccupazione. Il perché di questo è presto detto. Si avvicina, infatti, il momento della nazionalizzazione di una banca tedesca. Tutti i nodi non sono ancora stati sciolti ma il governo federale ha confermato che un progetto di legge per permettere la nazionalizzazione di un istituto di credito è in via di definizione e verrà discusso dal consiglio dei ministri di domani: una modifica legislativa è necessaria poiché attualmente in Germania l’acquisizione d’imperio da parte dello Stato non è permessa.
La candidata principale alla prima nazionalizzazione dalla fine della Seconda guerra mondiale è Hypo Real Estate, istituto di credito che ha già beneficiato di aiuti miliardari in questo ultimo anno e mezzo ma che versa ancora in enormi difficoltà: impossibile per Berlino non intervenire, visto che l’istituto è cruciale per il mercato dei Pfandbriefe, le obbligazioni ipotecarie: a tal fine il governo sta ancora trattando con il socio di riferimento, l’investitore J.C. Flowers, per trovare un’eventuale intesa sul prezzo.
Domenica intanto il ministro delle Finanze Peer Steinbrück ha detto che la situazione delle banche tedesche è fonte di «grande preoccupazione». Se a questo uniamo il fatto che i governi europei sono esposti per il 74% dell’intero portafoglio di prestiti dei mercati emergenti (un altro scherzetto da 4,9 trilioni di dollari) e che il Fondo Monetario Internazionale sta finendo le sue riserve di 200 miliardi di dollari, il quadro appare davvero fosco.
Almeno quanto quello prefigurato sull’inserto Business del Sunday Times da Simon Johnson, ex capo economista proprio del Fondo Monetario Internazionale, secondo il quale o il prossimo G7 porrà al centro della sua agenda il salvataggio dell’Irlanda oppure la tigre celtica andrà in default sul debito entro la primavera: si parla di 70 miliardi di euro di debito per un paese di pochi milioni di abitanti con un’economia a pezzi, il mercato immobiliare in fallimento e la delocalizzazione delle major statunitensi che sta distruggendo il sogno della ripresa.
I credit default swaps per assicurarsi sul default del debito irlandese venerdì scorso hanno toccato i 350 punti base, un dato devastante: per assicurare 100 dollari ne servono 3,5 di rischio paese mentre esattamente un anno fa bastavano 10 pence ogni 100 dollari.
La vera crisi sta arrivando, fino ad oggi abbiamo visto soltanto il trailer. Dalle stanze della politica romana, così come dai giornali italiani, registriamo un rumoroso silenzio al riguardo.