La settimana che si è da poco chiusa ha segnato un’ulteriore, pesante caduta nelle quotazioni delle  banche le cui cause immediate possono farsi risalire a timori di perdite legate al deterioramento della situazione economica, soprattutto nei paesi dell’Est; timori di nuovi fallimenti bancari negli Stati Uniti e in Europa, per l’emergere di nuove pesanti perdite legate ai titoli tossici e suffragate dalle recenti stime del Fondo Monetario Internazionale, che fanno lievitare a ben 2.200 miliardi di dollari le perdite delle banche che fino a 5 mesi fa erano “solo” di 1.400 miliardi; da ultimo i timori legate alle “minacce” delle nazionalizzazioni, suggerite o temute come unico rimedio in una situazione sempre più critica.



Fatto sta che nel giro di soli pochi giorni, le principali banche del Paese si sono ritrovate con valori di borsa che sono mediamente al di sotto della metà (e in due casi prossimi a un quinto!) dei mezzi propri, avendo perso dall’inizio dell’anno (e siamo solo a febbraio!) da un massimo del 49% (Unicredit) ad un minimo del 12% (Bpm) circa del loro valore.



Ha un senso tutto ciò? C’è ancora un legame razionale fra prezzi di borsa e “fondamentali” delle aziende quotate? Perché la semplice “ipotesi” di una nazionalizzazione genera reazioni così deprimenti (riferite alle quotazioni, s’intende)?

Al di là della circostanza “tecnica” che la nazionalizzazione può coincidere col fallimento della banca e dunque con l’azzeramento del valore della azioni in circolazione, non è facile trovare risposte convincenti a queste domande se non si parte dalla considerazione che viviamo ancora in un clima di larga e profonda sfiducia nella capacità di trovare rapidamente una soluzione alla stabilizzazione del sistema finanziario internazionale.



Questa sfiducia, nella migliore delle ipotesi, genera un blocco delle intenzioni di investimento o, semplicemente, di spesa e nasce dalla constatazione che fino a ora tutte le soluzioni ipotizzate e quelle sperimentate, hanno dato risultati scarsissimi: dapprima le abbondanti iniezioni di liquidità e il sostegno diretto dei depositi bancari (garanzie pubbliche), successivamente l’accorpamento delle banche in crisi in gruppi apparentemente più solidi, poi crescenti piani di intervento come il Tarp (troubled assets relief program), originariamente destinato ad assorbire i titoli tossici, e da ultimo le ipotesi di costituire apposite “bad banks” o di estendere gli interventi di ricapitalizzazione o, quelli più drastici, della nazionalizzazione delle banche più esposte. Tutti rimedi utili ma, evidentemente, non risolutivi.

Per quel che riguarda il nostro Paese possiamo solo osservare quanto segue: fino ad oggi il Tesoro non ha speso un solo euro in sostegno delle banche pur essendo intervenuto con efficacia, assieme alla Banca d’Italia, sia per fronteggiare il rischio del panico che stava per diffondersi immediatamente dopo il fallimento della Lehman, sia per ripristinare il funzionamento del mercato monetario, come testimonia la consistente riduzione del prezzo delle transazioni (il tasso Euribor).

Nel frattempo, secondo uno studio condotto da R&S, negli Stati Uniti sono stati spesi circa 200 miliardi di euro in interventi su ben 421 banche; in Europa sono stati spesi 100 miliardi di euro per interventi su 30 banche; di questi, la gran parte hanno riguardato interventi in Francia, Gran Bretagna e Germania; in molti casi si è trattato di interventi di nazionalizzazione, resi necessari dallo stato di profonda crisi delle banche sovvenute.

In Italia, il mancato intervento diretto del Tesoro, fino a oggi, è frutto della migliore situazione del nostro sistema bancario, ma è già previsto che si farà ricorso alla sottoscrizione di titoli speciali, i cosiddetti Tremonti bonds, al fine di allineare i coefficienti patrimoniali delle principali banche del Paese e in particolare il cosiddetto core tier one, dall’attuale misura che si colloca oltre il 6% al nuovo standard internazionale, pari all’8%: se ciò avvenisse in favore delle 6 banche più grandi e in assenza di ricorso anche ai privati, si andrebbe incontro a una spesa di 18 miliardi circa.

In questi giorni si sta mettendo a punto il piano di intervento per la sottoscrizione di questi titoli speciali e si può stare certi che le banche principali (e auspicabilmente, tutte quelle che ne hanno diritto perché quotate) accederanno a questa opportunità, specie se si riscontreranno i miglioramenti attesi sia sotto forma di un reale contenimento del costo per emissioni con rimborsi entro i quattro anni, sia per l’assenza di “ingerenze amministrative nelle scelte imprenditoriali”.

Ove ciò avvenisse, si risolverebbero contemporaneamente sia il fabbisogno di capitali per allinearsi ai nuovi requisiti patrimoniali, sia l’acquisizione di nuove risorse necessarie per sostenere il credito alle imprese meritevoli, in un periodo che si sta facendo sempre più difficile: non bisogna fronteggiare solo il rischio del credit crunch, ma anche un sensibile peggioramento nelle capacità di rimborso, com’è testimoniato dal sensibile aumento delle sofferenze bancarie.

La nazionalizzazione è il rimedio ultimo, in situazioni non altrimenti risolvibili, per sostenere un’attività indispensabile com’è quella delle banche: come ha tristemente dimostrato il caso della Lehman, il fallimento è un lusso che, per le sue implicazioni sistemiche, non ci si può permettere!

Nel nostro caso non ci pare proprio che ricorrano queste circostanze, poiché, come ci ha ricordato il Governatore Draghi al convegno del Forex, le nostre banche sono solide «e in condizioni migliori rispetto ai maggiori intermediari internazionali. Le hanno difese un grado contenuto di leva finanziaria; un modello imprenditoriale saldo nel proprio ancoraggio alla tradizionale attività creditizia, radicato nel rapporto con la clientela, famiglie e imprese; un quadro regolamentare e una vigilanza prudenti».

Inoltre, gli interventi attentamente progettati e in fase di approvazione definitiva, come quelli dei Tremonti bonds, paiono essere, allo stato, più che sufficienti per fronteggiare la situazione.