Dall’inizio della crisi finanziaria ad oggi, la Fed ed il governo americano sono intervenuti a sostegno di più di 400 istituti bancari (250 miliardi di dollari di controvalore). Oggi, la fila a quella che l’ufficio studi di Mediobanca (cui si deve questo conteggio) chiama la “mensa dei poveri” viaggi al ritmo di 20-40 banche alla settimana. È in questa cornice che è caduta, nel giro di pochi giorni, quello che sembrava un tabù invalicabile per i paladini del capitalismo: la nazionalizzazione delle banche. Lo stesso Alan Greenspan ha dato la sua benedizione ad una nuova strategia di sistema: nei prossimi sei mesi, a partire da Citigroup, una fetta rilevante del sistema del credito degli Stati Uniti potrebbe passare, in via temporanea, sotto il controllo del governo di Washington. Non sarà una svolta ideologica ma nemmeno un’operazione “tecnica”. Allo Stato, infatti, viene affidata una “mission impossible”, piena di incognite: restituire alla vita banche zombie (la definizione è di Nouriel Roubini) che sembrano vitali, ma in realtà giacciono prigioniere di asset tossici, come morti viventi incapaci di reagire ad elettroshock, pozioni magiche od altre ricette tentate in questi mesi. Con risultati deprimenti.
1) In questi mesi, si diceva, il sistema Usa non ha lesinato gli sforzi in attesa che le banche ripartissero con le proprie gambe. Non è, in pratica, passato un solo week end senza che la Fdic (l’agenzia federale di assicurazione dei depositi) non si prendesse carico di una banca, media o piccola, in stato di insolvenza, sostituendo, tra l’altro, il management. In un caso, IndyMac, la Fdic è anche intervenuta sui contratti di mutui ed altri rapporti con la clientela.
2) Il Tesoro Usa ha investito almeno la metà dei 700 miliardi stanziati per correre in soccorso delle grandi banche (con l’arcinota eccezione di Lehman Brothers), soprattutto attraverso la sottoscrizione di azioni senza diritto di voto: oltre alla solita Citigroup, Bank of America e Wells Fargo. Inoltre, la Fed ha stimolato fusioni ed acquisizioni, a partire dal salvataggio di Bear Stearns, fino alla trasformazione di MorganStanley, Merrill Lynch e della stessa Goldman Sachs in istituti commerciali. Il risultato? Una crisi nata da banche troppo grandi per fallire, ha generato banche ancora più grandi ed ingovernabili, più che altro ricche di scheletri nell’armadio (vedi asset tossici) di difficile valutazione. Nazionalizzare il sistema, suggerisce sempre Roubini, può essere l’occasione per far rinascere, in luogo dei dinosauri-zombi, 3-4 banche regionali efficienti e più legate al territorio.
3) Questa politica, lungi dal restituire fiducia nel sistema, ha intaccato gli equilibri nervosi del sistema finanziario. Al punto che Wall Street ha progressivamente ridotto al lumicino la valutazione degli asset, mobiliari ed immobiliari, e la qualità dei crediti vantati dalle banche.
4) Di qui un bivio delicato. Premesso che qualcosa va fatto. Aggiunto che l’intervento pubblico è comunque necessario, si pongono problemi assai delicati. A partire dai prezzi di ingresso. Qui si scontrano più tesi. a) A queste valutazioni, depresse dalla situazione generale, l’ingresso dello Stato nelle banche può avvenire a prezzi da esproprio. La soluzione? Il governo Usa, suggerisce Francesco Giavazzi, dovrebbe garantire tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, cioè impegnarsi ad acquistarle ad un prezzo superiore all’attuale valutazione di mercato; in questo modo si innescherebbe un circolo virtuoso destinato a trasmettersi su tutto il mercato moltiplicando l’effetto dell’intervento; b) al di là degli intenti iniziali, l’ingresso dello Stato nelle banche può risultare (come avvenne nell’Italia anni Trenta) assai meno temporaneo di quanto non sia nei disegni di Washington. Inoltre, il meccanismo può essere macchinoso e controproducente, soprattutto se ai vertici del sistema approdassero burocrati piuttosto che banchieri capaci di correre al servizio di un sistema flessibile e liberale. La soluzione? A molti piace la soluzione svedese. Nei primi anni Novanta Stoccolma, per evitare il fallimento del sistema bancario, creò una “bad bank” in cui far affluire le partite a rischio. La parte “buona” è rimasta al settore privato, gli asset tossici sono stati “smaltiti” (e spesso recuperati appieno) dagli amministratori della bad bank. Ma chi stabilirà il prezzo degli asset?
5) A chi crede che la crisi abbia depresso in maniera eccessiva bilanci migliori di quanto non appaia dai prezzi attuali, si contrappone la linea di chi pensa (vedi lo stesso Roubini) che il sistema nel suo complesso non abbia ancora evidenziato tutte le perdite reali. Anzi, la “via crucis” è destinata a proseguire finché non verranno smaltiti i 3.600 miliardi di perdite di cui ormai parlano i più. La crisi, stavolta, è assai più ampia di quella svedese, che riguardava la sola qualità del credito, mentre oggi si è di fronte innanzitutto all’effettiva valutazione del prezzo degli strumenti finanziari in portafoglio. È un problema che non ammette scorciatoie, tipo quella di eliminare o sospendere gli Ias. La terapia? Procedere ad uno “stress test” delle banche, senza attribuire valori fittizi (i goodwill ereditati dal ballo dei merger degli ultimi anni). Poi, procedere, caso per caso, alle nazionalizzazioni quando necessario. E la scelta dei banchieri? Meglio creare un’agenzia ad hoc, tra cui scegliere i possibili campioni piuttosto che fare affidamento sulle seconde linee dell’attuale sistema.
6) Il dibattito promette di essere ancora intenso, anche all’interno del fronte democratico. Al di là delle soluzioni tecniche, è in gioco la possibilità di salvare o meno i protagonisti della stagione passata che, bene o male, sono ancora ai vertici della finanza Usa. Oppure se intervenire in profondità. Senza dimenticare, per dirla con Churchill, che questo sistema è senz’altro pieno di difetti. Anzi, è probabilmente il sistema peggiore. Ma le alternative sono peggio.