Nel vertice economico di Davos, nonostante la diversità di vedute, la posizione dei rappresentanti dei diversi governi è in realtà quanto mai concorde. Occorre trovare gli strumenti più adeguati per aiutare il sistema finanziario e industriale a far fronte ad una crisi che per certi versi non ha precedenti nella storia economica recente.
È indubbio che il sistema bancario necessiti di una ricapitalizzazione straordinaria per poter procedere alle svalutazioni in bilancio delle valorizzazioni dei cosiddetti titoli spazzatura. Tuttavia è lecito porsi la domanda di come questo debba avvenire. In particolare l’idea di convogliare i toxic assets in una bad bank è corretta dal punto di vista teorico. Attualmente le banche, infatti, utilizzano gran parte dei fondi stanziati dallo Stato e destinati a ricapitalizzarle non già per erogare nuovi prestiti alle imprese (compito primario del settore bancario, soprattutto in un periodo di crisi), quanto piuttosto per mettere una pezza agli errori passati svalutando via via i titoli tossici. Poiché tuttavia l’ammontare di tali titoli e soprattutto il loro reale grado di “tossicità” è tutt’ora ignoto alle banche stesse, ecco che ad ogni tornata di conti trimestrali le banche necessitano di ulteriori capitalizzazioni.
Tutto ciò sta già accadendo negli Stati Uniti in questi giorni, anticipando di qualche settimana ciò che accadrà in Europa. Da qui l’idea di separare i titoli buoni dai titoli spazzatura di modo che il sistema bancario, liberato dall’onere di questi ultimi, possa concentrarsi sull’attività di finanziamento alle imprese senza essere preoccupato dall’utilizzare tutta la liquidità di cui dispone per coprire i buchi di bilancio creati dai toxic assets. Nonostante l’idea sia dunque corretta, la sua declinazione pratica è tuttavia assai discutibile. La proposta che sta infatti prendendo piede in Europa e negli Usa è di creare una gigantesca bad bank in cui far confluire tutti i titoli spazzatura. Ma l’onere della copertura di questi debiti sarebbe per larga parte sulle spalle dei contribuenti.
Qui esiste un evidente problema di responsabilità. Non è pensabile che il sistema bancario, che ha contribuito attivamente a creare le condizioni per lo sviluppo della crisi, possa pensare di uscirne scaricando sulla collettività gran parte dei costi. I cittadini si stanno facendo carico dei costi relativi alle conseguenze della crisi, non è corretto che debbano anche farsi carico dei costi delle cause. Esistono peraltro altre vie per realizzare il progetto di una bad bank, come quelle avanzate recentemente da Luigi Zingales secondo il quale le bad bank devono essere create dalle banche con costi a carico degli azionisti delle stesse. In questo modo non ci sarebbero spese a carico dei contribuenti ma solo a carico di chi si è assunto il rischio di impresa (gli azionisti). Questa proposta appare senza dubbio preferibile alla prima, dato che permetterebbe almeno di attribuire in modo corretto le responsabilità ed il rischio d’impresa.
In questi giorni al vertice economico di Davos Alessandro Profumo ha categoricamente rifiutato l’ipotesi di nazionalizzazione, anche parziale, del sistema bancario. Vedremo alla prova dei fatti se le banche saranno in grado di fare una chiara assunzione di responsabilità e se soprattutto sapranno ritornare a fare le banche, che con i loro prestiti condividono parte del rischio di impresa. Sino ad ora non lo stanno facendo, al contrario stanno operando una stretta creditizia senza precedenti. Su questo aspetto si gioca buona parte delle possibilità di ripresa dell’economia italiana ed internazionale.
Oltre al settore finanziario la crisi mette in luce due rischi estremamente rilevanti per il nostro Paese. Il primo rischio è legato al fatto che la situazione di emergenza possa dettare una legislazione di emergenza che sposi una filosofia opposta a quella delle riforme faticosamente implementate negli ultimi anni. Ad esempio sul mercato del lavoro l’enfasi si è spostata prevalentemente su politiche di tipo passivo (cassa integrazione) invertendo la direzione verso politiche attive intrapresa recentemente. È emblematico il fatto che il ricorso straordinario alla cassa integrazione venga parzialmente finanziato con i finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, destinati prevalentemente alla formazione. Con questo non si vuole sminuire l’importanza degli ammortizzatori sociali, quanto piuttosto mettere in guardia di fronte ad un cambiamento di direzione che alla lunga potrebbe risultare deleterio.
Il secondo rischio ha invece un orizzonte temporale molto lungo e forse per questo ad esso non viene data la necessaria importanza dalla politica, che, come si suol dire, rischia di sbagliare per eccessiva “miopia”. È indubbio che la crisi e le politiche implementate dai governo per farvi fronte lasceranno un onere sulla collettività sotto forma di maggior debito da dover pagare in futuro. Questo tema è rilevante anche per il nostro Paese, nonostante le prudenza del ministro Tremonti. Il problema in questo caso non è se poter aumentare o meno un debito già molto elevato come il nostro, il reale problema è come mettere le generazioni future nelle migliori condizioni per poterlo ripagare.
In aggiunta al costo della crisi, sulle spalle delle future generazioni italiane gravano due ulteriori fardelli: lo stock già elevato del debito pubblico esistente e un sistema pensionistico riformato troppo tardi. Per affrontare questi problemi non è sufficiente porre l’accento sulle politiche della crescita, come male e timidamente si è fatto negli ultimi anni, ma è fondamentale implementare una reale ed efficace politica per la famiglia. Quest’ultima è stata negli ultimi anni il vero ammortizzatore sociale che ha permesso agli italiani di superare dignitosamente dieci anni di bassa crescita e di riforme. Non è possibile pensare alle generazioni future senza pensare ad adeguate politiche per la famiglia. Nelle misure approvate in questi giorni dal governo c’è un timido segnale in questa direzione; ma è sperabile che sia solo l’inizio di una strategia forte e di lungo termine.