È davvero una medicina o soltanto un anestetico? E perché non distribuirlo a tutti? Uno psicodramma ha diviso il mondo politico ed economico sugli incentivi all’industria. Si sono formati due partiti trasversali: quello che potremmo chiamare pro Fiat e quello anti Fiat, perché il grosso dei sostegni va all’industria automobilistica. Il Consiglio dei ministri venerdì ha preso un provvedimento salomonico: anche se gli imprenditori vogliono di più (come ha ricordato Emma Marcegaglia) il Tesoro stacca un assegno realistico (due miliardi, e bonus auto fino a 1500 euro) che non mette a soqquadro conti pubblici già provati dagli effetti automatici della recessione (meno entrate fiscali e più spese sociali).



Ma è giusto o sbagliato puntellare un’ industria che ha già avuto molto, anche negli ultimi anni e, per quanto rilevante, rappresenta solo una parte minoritaria del tessuto produttivo italiano? Un sondaggio pubblicato da Repubblica mostra che il 59% degli italiani è d’accordo, anche se resta guardingo. In un modo o nell’altro, bisogna alimentare i consumi e rilanciare i settori che hanno maggiore impatto sul prodotto lordo: questa è la percezione collettiva. Mario Deaglio ha calcolato che un quinto della crescita italiana nel biennio 2006-2007 deriva dalla rinascita Fiat. Il quarto capitalismo e le multinazionali tascabili che hanno tenuto su l’export, a loro volta sono influenzate da un comparto con un forte effetto volano, come l’auto. Del resto, così fan tutti. E in ordine sparso. Era meglio una strategia comune, ma in Europa prevale il ciascun per sé, e la voglia di usare la crisi per buggerare il proprio vicino.



Alcuni, come Tito Boeri, sostengono che le scarse risorse pubbliche vanno usate per gli ammortizzatori sociali. È un argomento che fa presa in molti ambienti, dai sindacati alla Banca d’Italia. Aiutiamo i lavoratori in “esubero” con redditi adeguati per tutto il periodo necessario, invece di sprecare quattrini in prodotti maturi (come l’auto) o futuribili (le vetture ecologiche, certo da incentivare, ma prive di impatto congiunturale). I piccoli e medi imprenditori o i costruttori edili, lamentano che le loro condizioni finanziarie sono senza dubbio peggiori rispetto a Fiat, Piaggio o Indesit. Hanno ragione. I dati sul credito filtrati dalla vigilanza di Bankitalia e dalla Bce mostrano una contrazione molto forte in autunno, che aggrava la restrizione strisciante cominciata un anno fa. Nonostante le assicurazioni dei grandi argentieri e dell’Abi, il credit crunch c’è e si vede. Sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta.



Proprio questo è il punto. È ormai un luogo comune che stiamo vivendo la ricaduta sulla economia reale del collasso finanziario, il cui epicentro è nelle banche. Sono loro che, spiegava Ben Bernanke quando faceva l’economista, hanno innescato un meccanismo moltiplicatore, sia per l’eccessiva esposizione verso mutui, derivati e prestiti ad altissimo rischio, sia per una capitalizzazione troppo esigua dei supermercati finanziari. Ebbene, a un anno e mezzo dal crack dei subprime, dopo iniezioni continue e ingenti di liquidità, salvataggi, aumenti di capitale, nazionalizzazioni alla britannica, il meccanismo resta inceppato.

Le banche non si passano moneta tra loro, figurarsi se aprono la borsa a famiglie e imprese. In Italia la situazione è migliore, si dice. Forse dal lato dei bilanci, certo non da quello del mestiere fondamentale, cioè prestare il denaro raccolto. È un quadro fosco, causa e conseguenza della sfiducia che spinge gli operatori nella keynesiana trappola della liquidità. Le banche sono state puntellate, ma non ripulite. Nessuno riesce a sapere cosa hanno in pancia, confermano i più autorevoli osservatori internazionali (dall’Ocse al Fmi), ma quel che hanno non ha più valore. Allora, ha senso asportare il bubbone, come propone Tremonti, anche a costo di scontare perdite. La gente apprezzerebbe aziende più smilze, ma più sane. Perché buttare soldi pubblici in un pozzo di San Patrizio? La domanda sollevata per la Fiat vale, forse ancora di più, per il sistema bancario. La sensazione è che abbiamo bisogno di operazioni chirurgiche, non di morfina.