L’accordo tra Edf e Enel ha rilanciato il dibattito sul nucleare “italiano”. Ma resistono, nel nostro paese, i “miti” ecologisti delle fonti rinnovabili e il panico tecnologico di fronte alle scorie. In realtà, come spiega Alessandro Clerici, presidente onorario del World Energy Council Italia, nucleare, combustibili fossili e fonti rinnovabili non sono e non saranno fonti alternative, ma complementari. Nulla sarebbe più dannoso per il paese, allo stato attuale, dell’opzione ideologica per una fonte energetica a scapito delle altre. Con tutte le conseguenze, in termini di politica industriale e di sviluppo, che questo comporterebbe per il nostro sistema.



Ingegner Clerici, qual è la sua valutazione dell’accordo preliminare di cooperazione sul nucleare tra Italia e Francia?
 
Più che accordo tra Italia e Francia preferirei chiamarlo accordo Enel-Edf. Non abbiamo ancora tutti i dettagli  sull’accordo ed è quindi difficile entrare nel merito, ma per una ripartenza del nostro nucleare ha un impatto  positivo, perché il primo operatore nucleare mondiale, Edf, sposa il primo attore “elettrico” italiano. E hanno le carte in regola per formare un gruppo formidabile in grado di agire come architect engineers nella realizzazione di centrali e come investitori, augurandoci una celere schiarita internazionale e finanziaria per l’Enel.
 
Ed è una sinergia, almeno in parte, già collaudata.
 
Sì, perché Enel ha accumulato esperienza pre-Cernobyl nella costruzione e nell’esercizio di centrali nucleari ed ora all’estero, con Endesa ed in Slovacchia; inoltre da tempo collabora con Edf per la realizzazione dell’impianto di Flamanville. Se guardiamo da altri punti di vista, l’accordo è un sasso nello stagno che ha turbato le acque dei possibili interessi degli altri operatori e forse anche dei grossi consumatori, che si sono visti spiazzati, mentre pensavano forse ad un approccio iniziale di tipo consortile, sul modello finlandese, che riunisce utilizzatori e produttori.
 
Vede qualche rischio?
 
Vorrei sottolineare che realizzare il nucleare dovrebbe comportare una attento esame delle implicazioni di politica industriale, per far partecipare nella futura realizzazione degli impianti il maggior numero possibile di aziende italiane, sia di ingegneria che di componentistica che di costruzione/montaggio, qualificate e certificate. Quindi la domanda legittima diventa: avendo già definito chi sarà il fornitore principale – la francese Areva – riuscirà l’Italia ad avere la forza di inserire i suoi fornitori? E poi: avendo già definito in via preliminare di acquistare da Areva, riuscirà a spuntare prezzi interessanti?
 
Allora in lei prevalgono piuttosto le perplessità…
 
Più che perplessità sono pensieri che sorgono dal fatto, tra l’altro, che Edf possiede una buona partecipazione azionaria di Areva. Altri avrebbero voluto sedersi al tavolo. Ma ripeto: occorrerà vedere in dettaglio cosa prevede e come evolverà l’accordo, e come si comporteranno gli “altri”: investitori e gruppi energetici (i competitors di Enel ed Edf), grandi consumatori e fornitori di centrali nucleari (i competitors di Areva).
 
Restano da vedere l’intero quadro normativo e i procedimenti autorizzativi. Quali sono gli errori da evitare?
 
L’accordo potrà realmente partire solo quando saranno definiti in dettaglio tutti gli aspetti legislativi. Ripeto da tempo che, basandoci su quanto esiste negli altri paesi, occorre concentrarsi ed arrivare al più presto ad una normativa dettagliata che dica, per esempio nel primo capitolo, quali caratteristiche dovrebbe avere un sito per ospitare una centrale nucleare, stabilendo tutti i requisiti, tecnici e territoriali. E questo per dare una certezza agli investitori ed alle istituzioni e popolazioni locali. Sembrano questioni ovvie, ma non lo sono. La normativa di dettaglio dovrebbe essere la prima da definire, si badi bene, e non l’ultima. Ad essa dovrebbero poi conformarsi tutti i successivi regolamenti, le deleghe attuative delle leggi quadro, e via dicendo.
 
Un procedimento opposto a quello forse più usuale in Italia. Cioè una legge “omnibus” e una serie di regolamenti e decreti attuativi, a cascata.
 
Certo, se pensiamo che oggi mancano ancora i decreti applicativi di alcune leggi finanziarie degli anni scorsi. In tali decreti occorrerà cercare di non inventare l’ombrella ed avvalerci, come già manifestato in un decreto legge, di quanto già svolto da altre istituzioni estere, ma definendo i dettagli. Se un reattore – mettiamo l’Epr – è già certificato altrove, per esempio in Francia dall’autorità per la sicurezza, anche noi possiamo e dobbiamo automaticamente qualificarlo. Altri punti chiave che necessitano di regole chiare sono l’autorizzazione alla costruzione, l’autorizzazione all’esercizio, il ciclo del combustibile, il fine vita con  il decommissioning. Occorrono teams di esperti che scrivano tali capitoli, che diventeranno leggi da amalgamare con il resto della nostra legislazione. La quale, non dimentichiamolo, va semplificata.
 
Senza dimenticare il ruolo dello Stato…
 
Se il nucleare lo si fa in un libero mercato, deve poter essere un investimento fatto da privati. Compito dello Stato è garantire le regole essenziali perché questo possa avvenire. L’investitore non può permettersi di correre il rischio – per dirne una – che il primo Tar di turno blocchi i lavori a metà dell’opera. In un investimento capital intensive come il nucleare, dove per costruire una centrale ci vogliono almeno cinque anni, i ritardi creano costi enormi. Poi dovrebbe garantire, definendolo a livello europeo, contro eventuali gravi incidenti: che sono oggi di probabilità bassissima, ma per i quali il normale regime assicurativo farebbe pagare premi di assicurazione spropositati. Infine, l’intervento dello Stato non potrebbe non riguardare i rifiuti e le scorie.
 
Per superare lo scoglio del consenso?
 
No, per la gestione dei siti di stoccaggio. Le scorie ad alta radioattività hanno una vita di centinaia di anni ed è evidente che il privato non può assumerne la responsabilità di gestione. Dovrà invece accantonare i soldi per la gestione finale delle scorte da parte di  un soggetto terzo che agisce per conto dello Stato, come avviene nei principali paesi. Un approccio similare dovrà essere definito per il decommissioning.
 
Il nucleare di terza generazione, si dice, è vecchio e le centrali di quella generazione non vengono più costruite; d’altra parte non abbiamo la tecnologia per la quarta. Non conviene stare fermi e aspettare, rinunciando all’atomo per il momento?
 
È una tesi priva di fondamento. Innanzitutto perché chi vuole il nucleare oggi – e ci sono attualmente 44 nuovi impianti in costruzione nel mondo – può farlo solo di terza generazione, perché la tecnologia di quarta generazione non ce l’ha nessuno. Nel gruppo di lavoro del WEC che presiedo, con esperti che vanno dal Portogallo alla Russia, la quarta generazione – se non vogliamo parlare di esperimenti di laboratorio – esiste come possibilità di realizzare reattori di taglia commerciale non prima del 2040.
 
Quindi chi costruisce centrali oggi le fa di terza generazione.
 
Esatto. Di terza generazione sono quelli in Francia, Usa, Inghilterra, Finlandia, Russia, Cina, Giappone, Sud Corea ecc. e saranno le centinaia di impianti che andranno a essere ordinati e costruiti nei prossimi decenni in tutto il mondo. Terza e quarta generazione sono due strade non in competizione ma che corrono parallele con tempistiche ed obiettivi diversi. Sviluppare la quarta vuol dire investire in ricerca e sviluppo per non essere tagliati fuori in futuro. Rinunciare adesso alla terza generazione sarebbe come dire: non mando mio figlio a scuola perché aspetto di avere, forse  tra trent’anni, la scuola ideale. Un chiaro esempio viene dalla Francia, che sostituirà nei prossimi 50 anni le centrali nucleari esistenti (59 reattori per circa 63 mila MW) da qui al 2040 con reattori della terza generazione e successivamente con quelli della quarta.
 
Torniamo alle scorie. Il loro impatto sull’opinione pubblica è fortissimo. È in qualche misura motivato? In altre parole, avremo le scorie nel cortile di casa?
 
Mi viene facile fare una battuta: in Italia forse abbiamo ragione di preoccuparci, se nascondiamo nelle cantine i rifiuti di basso e medio livello da ospedali,centri di ricerca ecc…. Il problema delle scorie low and intermediate level è accettato in tutto il mondo, e per risolverlo si dovranno costruire dei depositi di superficie. Per le scorie a lungo decadimento il problema si porrà tra cent’anni (una nuova centrale ha una vita di 60 anni e per alcuni decenni le scorie sono fatte decadere nel sito della centrale alla fine della sua vita); occorre però subito la certezza che potrà essere risolto. Ma una soluzione c’è già, ed è quella di mettere le scorie in depositi geologicamente stabili. Anche questo tuttavia è un aspetto che va visto nelle sue implicazioni.
 
In che senso?
 
Molti italiani pensano forse ad una Pianura Padana disseminata di fusti tossici. Ma il volume totale delle scorie ad alta radioattività prodotte per 60 anni da eventuali 13 mila MW di  nucleare in Italia – tali da dare nel 2030 il 25-30% di energia elettrica dal nucleare – sarebbe inferiore a quello di un cubo di 25 metri di lato, anche senza un riprocessamento che ne ridurrebbe ulteriormente i volumi di cinque volte. Ma il problema è più complesso ed in questo l’Europa sta facendo progressi.
 
Quali? Un coordinamento comunitario dei siti di stoccaggio?
 
Andando al di là della logica per la quale chi contamina deve pensare a smaltire. Non ha senso che in Europa ogni nazione che ha il nucleare debba crearsi un deposito, con costi e problematiche di proliferazione connessi. Sono sicuro che nei prossimi anni verrà fuori il contrario. Che cioè per alcuni paesi, che hanno determinate caratteristiche geologiche, ospitare le scorie diventerà un business. È un problema peraltro che i grandi costruttori di centrali stanno già affrontando, non solo come “fornitori di centrali”, ma anche come fornitori del ciclo completo di combustibile. Comunque, anche da qui si vede che il problema è essenzialmente culturale. Posso raccontare un esempio a dir poco sorprendente?
 
Prego.
 
Il caso più eclatante di cambiamento di opinione rispetto al nucleare è quello della Svezia che nel 1980, cioè sei anni prima di Cernobyl, aveva deciso di chiudere tutte le centrali nucleari entro il 2010. Ora oltre l’85% della popolazione non vuole chiudere gli impianti ma estenderne la vita e la potenza disponibile. E il perché, rispondono, è che l’energia nucleare è quella più rispettosa dell’ambiente e la più economica. E due regioni in Svezia si contendono la localizzazione del “cimitero” finale delle scorie. In sondaggi condotti in Svizzera, Slovacchia e Stati Uniti, la popolazione residente vicino a centrali nucleari è favorevole ad uno sviluppo del nucleare mentre è più ostile chi vive lontano dalle centrali stesse.
 
Il mix energetico proposto dal governo prevede un 25% di energia prodotto da fonti rinnovabili. La loro popolarità è in crescita. Qual è il futuro dell’energia pulita?
 
Sarebbe bellissimo poter usare il vento o l’energia solare per produrre energia pulita, energia che arriva sulle terre emerse per un quantitativo mille volte superiore agli attuali consumi globali. Naturalmente è un filone di ricerca da sviluppare ancora per arrivare a soluzioni economiche, valorizzandone chiaramente i vantaggi – l’assenza di CO2 – ma anche i costi addizionali di trasmissione e di riserva di generazione convenzionale (abbiamo bisogno dell’elettricità anche quando non c’è sole o vento!). Tuttavia occorre parlare non solo di desideri, ma anche di numeri e fatti. Il 40% dei circa 19 mila TWh prodotti nel mondo nel 2007 viene dal carbone – destinato ad aumentare per gli sviluppi di India e Cina – , il 17% dal gas, il 15% dal nucleare,l’1% dall’eolico e un mero 0,05% dal fotovoltaico. Nell’Europa dei 27 il carbone fornisce il 32%, il gas il 21%, il nucleare il 30% , l’eolico il 4% ed il fotovoltaico lo 0,1% dei 3200 TWh di fabbisogno europeo.
 
Per non parlare dei costi.
 
Sì, perché la realtà dimostra che di fatto sono state e sono adottabili ad ora solo con forti incentivazioni. Vogliamo vedere i costi del kilowattora? Tenendo conto di tutti i fattori implicati nel bilancio della convenienza energetica – capitale (valutato in via semplificata con un onere annuale pari al 10% dell’investimento), ore di utilizzazione, combustibile, operation and maintenance, danni per l’ambiente cioè CO2 (valutata da 25 a 50 euro per tonnellata) e considerando anche valori “estremi” e superiori a quanto verificatosi nel recente passato per i combustibili (gas, carbone, nucleare) – abbiamo i seguenti costi: ciclo combinato a gas da 70 a 150 euro per MWh,  carbone 60-130 euro per MWh, nucleare 44-67 euro per MWh, eolico 65-110 euro e fotovoltaico da un minimo di 320 ad un massimo di 700 euro per MWh. È giusto incentivare le nuove tecnologie, ma queste tecnologie non possono andare avanti all’infinito a suon di incentivi pagati dai cittadini.
 
E il costo in bolletta?
 
Oggi il fotovoltaico è pagato dal singolo utente 0,42 euro al kWh per le piccole installazioni e valori leggermente inferiori per le altre: un valore importante, che però, fin quando siamo in Italia e abbiamo a che fare con qualche centinaio di MW, scompare. Ma se i MW prodotti col fotovoltaico salgono, come avviene in Germania e in Spagna – dove le sovvenzioni sono state un dazio politico salatissimo – i costi delle incentivazioni  che vanno sulla bolletta degli utenti diventano notevoli.
 
Non è al contempo anche una scelta di politica industriale: diventare leader su tecnologie a ridotto impatto ambientale?
 
Sì, lo è stato per la Germania e la Spagna ma ora, dopo vari anni di incentivi, questi subiranno ad esempio nel fotovoltaico un calo del 9% l’anno in Germania e ne hanno avuto recentemente uno del 30% in Spagna. C’è da valutare un altro effetto a dir poco collaterale: può il costo delle rinnovabili essere tale da spiazzare l’economicità del Paese? La vulnerabilità di un paese non dipende solo dal fatto di non avere risorse energetiche interne e di importarle tutte. Questa potrebbe essere paradossalmente ridotta con una diversificazione per area geografica di importazione e per tipologia di risorse, tale da marginalizzare il rischio. Ma se la mia produzione, per essere indipendente e “pulita”, costa a tal punto da farmi perdere in competitività, ecco che torno ad essere estremamente vulnerabile. Le aziende energy intensive rilocheranno gli impianti altrove. E avrò creato disoccupazione. C’è da augurarsi che il nostro paese abbia un approccio equilibrato per i tre pilastri della CE: sostenibilità ambientale, sicurezza degli approvvigionamenti e competitività.
 
Per rendere economico in Italia un piano nucleare cosa dobbiamo fare?
 
Il nucleare è una tecnologia notevolmente influenzata dall’effetto-serie. Se compro una o cinque centrali a ciclo combinato il costo unitario è praticamente uguale, ma nel caso del nucleare se metto più  gruppi per sito e realizzo più centrali uguali ciò consente di standardizzare le procedure, abbassando il costo unitario di investimento anche del 30 per cento e diminuendo in modo vantaggioso anche i costi di operation and maintenance.
 
Qual è il modello di approccio che, a suo avviso, farebbe al caso nostro?
 
Non esiste un approccio unico valido per tutte le realtà. L’approccio finlandese da me più volte menzionato in questi anni è molto interessante. Si crea una società di produttori e consumatori  che hanno entrambi interesse, il produttore a fornire energia a buon mercato e il consumatore ad utilizzarla. La società realizza la centrale senza scopo di lucro. La centrale cede agli azionisti l’energia, in proporzione al capitale azionario, per quarant’anni, senza tasse. Così non c’è alcun rischio di mercato perché il kilowattora prodotto viene sicuramente ritirato. Con questa base le banche hanno dato l’80% del valore dell’investimento ad un tasso notevolmente interessante. Ecco che il costo del kilowattora risulta notevolmente diminuito.
 
Non sarà facile, in Italia, mettere insieme la varietà di interessi esistenti.
 
È vero, ma se il nostro mercato elettrico sarà tale da dare un vantaggio solo a chi fa la centrale perché ne fa un business, i grandi consumatori di energia vedranno il nucleare come il fumo negli occhi.
 
Cosa pensa del modo in cui nel nostro paese sta avvenendo il dibattito sul ritorno all’atomo?
 
Non vedo un’informazione strutturata e trasparente tale da ottenere l’indispensabile consenso. Non occorre una campagna pro o contro il nucleare, ma una campagna pro ambiente e attenta ai costi per l’utente finale, dalla quale emerga che l’opzione nucleare non dico che sia obbligata, ma che è fondamentale da esaminare. Ma soprattutto, nucleare e rinnovabili non devono essere presentati come alternative contrapposte, ma come opzioni diverse e complementari. Il nucleare è un’energia di base che viene fornita con continuità, mentre quella dal vento e dal sole è aleatoria ed ha bisogno di adeguata”riserva” di energia “programmabile” da combustibili fossili o dal nucleare.  



Non ultimo avremo il problema dei siti.

Nella delicata scelta dei siti, avrà grande importanza, a parte il consenso, la disponibilità di acqua, ecc. il problema di connessione alla rete ed il rafforzamento della rete di trasmissione, che attualmente è già un collo di bottiglia a causa delle notevoli opposizioni alla realizzazione di nuove linee.

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