Il Fondo monetario internazionale stima che nel mondo le perdite di banche e altre istituzioni finanziarie ammontino a 2.200 miliardi di dollari; cinque mesi fa erano 1.400 miliardi. Per le sole banche quelle finora evidenziate in bilancio superano gli 800 miliardi e gli interventi per ricostituire il capitale sono stati all’incirca dello stesso importo, di cui quasi la metà proveniente da fondi pubblici. Sperando che le stime difettino per eccesso, alla luce di tali dati, abbiamo una sola certezza: il mondo che ci verrà riconsegnato alla fine di questa crisi non sarà più lo stesso. Tutti i paradigmi su cui abbiamo fatto affidamento sono saltati e non sono riproponibili. Il problema è pensarne di nuovi, più aderenti alla realtà. Il compito non è facile e serviranno studi approfonditi.



Il problema principale è chi avrà autorevolezza sufficiente per effettuarli. Questa crisi segna negativamente infatti tanta intellighenzia che da molto tempo, dall’alto di prestigiose cattedre universitarie e attraverso i maggiori organi di informazione, ci ha impartito lezioni su come doveva funzionare l’economia mondiale. Gli esperti nostrani, di riflesso, da anni ci hanno indicato la strada per emancipare la nostra economia, troppo tollerante verso le piccole e medie imprese, e la necessità di sostituire le banche di territorio con modelli dove il dato dimensionale diventava il fattore portante. Con un’attenzione quindi tutta rivolta agli azionisti, al valore delle azioni, con logiche di breve periodo, soprattutto in presenza di piani di stock option, e meno sensibile verso gli altri interessi di cui è portatrice un’impresa bancaria.



Una logica tutta finanziaria nella presunzione di saper meglio allocare il risparmio e scegliere l’investimento più redditizio, ignorando ogni ipotesi di collegamento fra il luogo dove avviene la raccolta e quello dove si fanno gli impieghi. Sono gli stessi esperti che hanno insegnato a migliaia di studenti che il nuovo schema per le aziende era quello di mantenere in Italia le attività direzionali, come la finanza e il marketing, e di spostare in altri paesi il manifatturiero. Sfornando così generazioni di laureati che si sentivano realizzati solo se impiegati in importanti istituzioni finanziarie, meglio se situate in grandi centri internazionali. Si tratta di un’intellighenzia che non ne ha azzeccata una, ma che continua a pontificare dicendo oggi cose diverse da ieri con una disinvoltura disarmante. Dei veri e propri camaleonti.



Non è che si debba salvare tutto del passato, tante cose vanno cambiate. Troppo acriticamente però, e in qualche caso con non pochi interessi, si è favorito l’ingresso nel nostro paese di culture e istituzioni finanziarie incapaci di accompagnare la nostra straordinaria capacità imprenditoriale, ma efficacissime nell’ingenerare costosi bisogni di consulenza o di trasformazioni societarie a scapito di splendide realtà industriali. Agli slogan ripetuti in favore delle piccole e medie imprese non sono mai seguiti atti concreti, né a livello accademico né sul piano legislativo, che dessero il giusto riconoscimento al nostro modello economico.

Se sappiamo far tesoro di tali errori, che hanno negato un’evidenza e non una teoria, sono convinto che l’Italia per le sue caratteristiche sarà la prima a ripartire. L’economia incentrata sul libero mercato è un bene, fin qui tradito perché eluso nei fatti, ma per esserne protagonisti occorre che le imprese ripartano dall’orgoglio di appartenere a una storia e alle sue tradizioni. Devono portare sui mercati internazionali la cultura e i tratti della loro civiltà senza complessi di inferiorità. Per il resto, la creatività dei nostri imprenditori ha solo bisogno di meno burocrazia, di una maggiore solidità patrimoniale, sostenuta anche da istituzioni finanziarie all’altezza, e di un management formato in università dove si insegni a guardare la realtà, che non si può certo creare in laboratorio ma solo servire.