Trattenuto nello stile, tagliente come un rasoio in alcuni passaggi delicati. Ma un rasoio impugnato e passato sulla pelle con mano ferma sì, ma leggera, con l’intento di tagliare i peli di troppo ma senza aprire alcuna ferita né far scorrere alcun sangue. E’ questo, il mio giudizio di stile sull’audizione parlamentare tenuta ieri dal governatore della banca d’Italia, Mario Draghi. Non è sulle previsioni macro di una recessione estesa per tutto l’anno, e nemmeno sul no alle indebite intromissioni della politica nella valutazione del merito di credito – nel caso in cui gli osservatori prefettizi sull’erogazione di prestiti alle imprese prevaricassero i limiti sui dati disaggregati degli impieghi, che spettano solo a Bankitalia, nel nostro ordinamento – il meglio della testimonianza di Draghi. Questi due punti erano pressoché scontati. Il secondo, che tanti titoli ha suscitato sulla stampa nei giorni precedenti, ha rilievo solo perché il governatore ha proferito il suo giudizio in maniera volutamente incidentale, dopo aver riconosciuto che via Nazionale è prontissima a collaborare con gli osservatori per monitorare ancor meglio eventuali anomalie nel garantire alle imprese i flussi di credito. A patto, però, che non ci si voglia sostituire ai banchieri nel valutare, caso per caso, chi il credito lo meriti e chi no, tenuto conto che in questo momento più che mai le banche devono pensare alla propria sana e prudente gestione.
Mi sarei stupito del contrario, se Draghi non lo avesse detto. Il mio personalissimo giudizio è che su questa storia degli osservatori meno polemiche istituzionali si animano, meglio è. Il punto è che sui territori banche e associazioni delle imprese abbiano tavoli istituzionali di confronto veri, e che a migliaia di piccole imprese italiane nei prossimi mesi decisivi non manchi l’acqua per nuotare. Non è con le polemiche, che si risolve il problema. Né tanto meno accusando il governo di voler mettere le mani sulle banche: abbiamo atteso mesi perché le banche italiane concordassero le tre tipologie dei Tremonti bonds, all’inizio accusati a torto di essere troppo onerosi mentre le loro condizioni erano stabilite a livello comunitario. Dopodichè, invito tutti a riflettere su ciò che i grandi giornali italiani non descrivono: in Francia gli ispettori delle Finanze siedono ormai a fianco degli amministratori delegati di tutte le banche che hanno avuto sostegno pubblico; in Germania, ogni governo regionale impone alla Landesbank di pertinenza impieghi concentrati solo sul territorio, elenchi dei prenditori alla mano. Lasciamo perdere quel che avviene nel Regno Unito. Temo che in tutt’altri paesi europei, la politica stia mettendo le mani sulle banche.
Al contrario, a mio giudizio ciò che ieri è stato niente affatto scontato, nelle parole di Draghi, riguarda tutt’altre parti del suo intervento. In sintesi, ne indicherei almeno quattro. La prima riguarda il giudizio su ciò che ancora manca, da parte di politica e regolatori di quella parte mondo che ha generato la crisi finanziaria: cioè gli Stati Uniti. La seconda, il giudizio sull’operato del governo italiano. La terza, alcune anomalie che gravano sull’operatività delle banche italiane, e su come affrontarle. La quarta, infine, qualche rasoiata veramente a sorpresa. Vado per sintesi, perché molto ci sarebbe da dire.
Mi è piaciuto la secca insufficienza riservata alla nuova amministrazione americana. Pur senza citarla, è innanzitutto ad essa che Draghi si è riferito, quando ha detto per due volte che la chiarezza sugli asset tossici dei grandi intermediari finanziari mondiali ancora non si è vista. Finché un intervento netto e chiaro su questo continuerà a mancare, le premesse per uscire dalla crisi mancheranno. E Draghi ha detto anche come fare, a ben leggere le sue parole. Tutte le perdite vanno addossate ai soli azionisti, tutelando tutte le altre classi di creditori bancari. Vedremo se Obama, Geithner e Summers ne avranno il coraggio. Per il momento, non pare proprio. Preferiscono accumulare centinaia di miliardi di dollari per interventi a trecentosessanta gradi finanziati in deficit, drenando per il suo finanziamento l’intero flusso dei capitali mondiali, integralmente riorientato oggi dai Paesi emergenti ed Ocse verso gli Usa, fidando nella loro illimitata capacità d’indebitamento e nel dollaro libero di fluttuare. Ma il bisturi nelle banche non lo immergono, Obama e i suoi.
Sull’operato del governo nostrano, Draghi non ha nascosto parecchie critiche. Bene gli interventi in deroga di copertura alla disoccupazione di lavoratori atipici che secondo il nostro Welfare ne sarebbero sprovvisti, ma Draghi preferirebbe la riforma organica indicata da Giavazzi e Boeri , e temuta da Sacconi e Tremonti visto che la Cgil ne approfitterebbe per inscenare teatrini e rilanci a durata indefinita. Anche sul piano di incentivi all’edilizia privata “dal basso”, con procedure auto dichiaratorie e aumento delle cubature, Draghi ha espresso qualche perplessità, pur senza dire di no. E quanto all’ammontare degli stanziamenti “reali”, al di là delle riallocazioni di somme già per competenza stanziate nelle annualità precedenti e non spese, Draghi è severo nel ripetere che essi assommano e mezzo punto di Pil , bilanciato da misure di entrata per pari ammontare.
Veniamo alle banche. Qui la grande sorpresa è stata la più analitica e documentata requisitoria sin qui pronunciata a favore del fatto che il fisco italiano le liberi da gravami che in Paesi concorrenti non sono previsti. Si tratta delle modalità fiscali collegate alle svalutazioni sui crediti, deducibili dal reddito bancario solo nel limite dello 0, 3% dei propri impieghi e per il resto da rateizzare a fini di deducibilità in ben 18 anni. Poi, i nuovi limiti sulla deducibilità degli interessi passivi, delle spese amministrative e degli ammortamenti, introdotti con la cosiddetta Robin Hood Tax del luglio 2008. Infine, l’assoggettamento a pagamento Iva delle prestazioni infragruppo, introdotte anch’esse a valere dal 2009 e che stanno spingendo grandi banche – Intesa, per esempio – a riorganizzare le proprie attività cedendo interi rami d’azienda a società consortili ad hoc. Su questi tre punti non è che Draghi abbia fatto polemiche col governo: ha detto solo che da questi vincoli deriveranno diversi miliardi d’imposta in più a carico delle banche italiane, in un anno in cui i margini d’intermediazione e d’interesse scenderanno molto. Inutile dire che se poi il governo chiede alle banche maggiori impieghi e maggiori tasse in mercati asfittici e sfiduciati, difficilmente otterrà botti piene e mogli ubriache. Su questo, Draghi ha sposato le posizioni dell’ABI. Ma non credo che Tremonti sia pronto a tornare indietro, a maggior ragione visto che anche lo stesso Unicredit annuncia utili maggiori delle attese, nell’atto stesso in cui richiede gli strumenti ibridi di patrimonializzazione messi a disposizione dal governo per accrescere i prestiti a famiglie e aziende.
In ogni caso, Draghi ha assicurato che Bankitalia non fa sconti, in materia di vigilanza. Non solo ha spiegato che per le banche italiane questo dovrebbe essere il momento di svalutare avviamenti patrimoniali ormai stellarmente poco credibili, in molti casi di istituti che mantengono valori di libro storicamente ipervalutati all’atto di grandi fusioni e acquisizioni negli anni alle nostre spalle. Bankitalia esclude dai suoi stress test sul patrimonio più solvibile di vigilanza gli avviamenti: i banchieri capiscano, e procedano dunque ad aumenti di capitale, come a cedere e riaggruppare le troppe sgr che rendono inefficiente il nostro risparmio gestito. Nelle risposte ai parlamentari, Draghi si è concesso anche qualche parole più esplicita, sulle banche da lui vigilate. Quando, per esempio, ha accomunato le vicende del salvataggio di Romain Zaleski e il finanziamento a Cai da parte di Intesa per salvare Alitalia, sostenendo che in entrambi i caso si è trattato di operazioni che non negano credito alle piccole imprese affamate di capitale, si è trattato di una brillante e misuratissima perfidia.
Ci sono più scintille sotto le deliberate ceneri della prosa di Draghi, di quanto molti dei suoi critici siano disposti ad ammettere. Anche se, purtroppo, la sua compassata freddezza sa un po’ troppo di gelo, a migliaia di imprese che vorrebbero oggi un banchiere centrale più “caldo”, nell’indicare il fabbisogno di credito attuale come una trincea sulla quale moltissime aziende rischiano di morire.