«La valutazione di Bernanke è rasserenante, verso la fine dell’anno potremmo vedere la via d’uscita dalla crisi». È moderatamente ottimista, il professor Quadrio Curzio, sugli sviluppi della crisi. E non risparmia qualche critica alle stime negative del Fmi, che settimana scorsa ha dato il Pil europeo in calo del 3,2% nel 2009: «è una enfatizzazione. Forse in questo modo vuole rimediare al fatto di essere cascato dentro la crisi senza prevederla». Poi le banche. Nell’ultima settimana gli istituti di credito sono rimasti al centro dell’attenzione, tra le richieste di Tremonti bond per ricostituire le scorte di liquidità e la proposta di utilizzare i prefetti per il controllo dell’erogazione del credito. In mezzo, l’audizione del governatore di Bankitalia Mario Draghi, il quale ha ribadito che per prima cosa occorre far luce sugli asset tossici, e addebitare le perdite agli azionisti. »Ma la categoria del capitale di rischio – ammonisce Quadrio Curzio – non esenta le istituzioni da responsabilità di vigilanza e di controllo. Essere azionisti non vuol dire accettare il rischio e le perdite della roulette». E infine l’Europa. Il principale rischio da evitare, dice il professore, è di farne un Moloch delle regole.



Il Fmi, in un documento consegnato settimana scorsa ai paesi del G20, ha corretto al ribasso le sue stime di crescita per l’Europa riferite al 2009, -3,2 per cento. La situazione è così grave?

 

Ho l’impressione che il Fondo monetario, negli ultimi tempi, si stia esercitando in una enfatizzazione del peggio che arriverà, con una continua revisione in negativo delle sue stime. Forse in questo modo vuole rimediare al fatto che in passato è cascato dentro la crisi senza prevederla. In ogni caso è molto difficile fare stime in un momento così incerto. Inoltre i punti di vista sono differenti. Per esempio Bernanke ha detto, qualche giorno fa, che a suo avviso il peggio dovrebbe essere passato e quindi potremmo, nella seconda parte dell’anno, non dico vedere l’uscita dal tunnel ma almeno la luce al suo fondo.



«Senza dubbio la disoccupazione peggiorerà – ha detto – ma se riusciremo a stabilizzare il sistema finanziario, inizieremo a vedere un rallentamento della crisi». Già dalla fine di quest’anno, ha aggiunto. Lei quindi dà una valutazione positiva delle posizioni espresse dal capo della Fed.

La valutazione espressa da Bernanke mi pare, diciamo, rasserenante. Nel senso che essendo al governo della banca centrale del paese più colpito dalla crisi, della banca cioè che ha dovuto intervenire con misure mai viste in precedenza dal 1945 ad oggi, la sua dichiarazione ha un valore aggiunto di molto superiore rispetto a qualunque altra opinione manifestata su questa situazione. Bernanke, inoltre, è un economista con una profonda conoscenza delle vicende storiche e quindi una capacità di valutazione qualitativa notevole.



Mentre però gli Usa continuano a dirottare capitali verso l’aiuto delle banche in perdita, dando l’impressione che manchi la volontà di individuare i famosi asset tossici, nella sua recente audizione in Commissione finanze della Camera Mario Draghi ha detto che è urgente fare luce su questi asset e ha detto che le perdite vanno addossate agli azionisti. Qual è la sua valutazione?

È vero: non si è ancora fatto un bilancio definitivo della quantità e della distribuzione di questi asset. Credo lo si dovrà fare, con il tempo dovuto e un’adeguata ponderazione. Esiste poi il problema del loro consolidamento, con una qualche soluzione tipo bad bank che non sarà facile da costruire. Per quanto riguarda il problema delle perdite, addossarle agli azionisti mi sembra una soluzione molto radicale, anche perché in molti casi gli azionisti sono stati essi stessi oggetto di malversazioni. Credo pertanto che istituzioni responsabili dovrebbero, senza negare l’esistenza del cosiddetto capitale di rischio, risolvere prima il problema delle remunerazioni e dei bonus dei vari dirigenti che hanno causato i disastri. E soltanto dopo affrontare il problema degli azionisti. Tenendo ben presente che la categoria del capitale di rischio non esenta le istituzioni da responsabilità di vigilanza e di controllo. Essere azionisti non vuol dire accettare il rischio e le perdite della roulette.

A proposito di banche: le sembra che il sistema bancario, che dovrebbe essere al centro della ricostruzione della fiducia, sia vittima di una sorta di neodirigismo?

Negli Usa, in Inghilterra e in Irlanda, lo Stato è entrato in molti istituti bancari e come azionista potrà e dovrà esercitare i diritti correlati. Naturalmente aspettiamo di vedere come li eserciterà. Poi ci sono paesi come l’Italia, in cui lo Stato non è entrato nelle banche, perché anche laddove le banche emettano – e lo Stato sottoscriva – i titoli ibridi denominati Tremonti bond essi non comportano diritto di voto. Sono quindi forme di ricapitalizzazione.

Nelle quali lo Stato deve rimanere completamente fuori dalla gestione delle banche e dalle interferenze coi soci.

Sì. Ma i soci, specie le Fondazioni nelle grandi banche italiane, devono valutare bene se i vertici delle banche da loro partecipate siano stati o siano all’altezza della situazione. Non parlerei, allo stato delle cose, di neodirigismo, mentre mi piacerebbe parlare di verifiche della base sociale della governance delle banche. Le fondazioni sono degli azionisti ottimi perché hanno un’ottica di lungo periodo e la conferma esplicita da parte loro dell’adeguatezza delle governance delle banche è un fatto di grande rassicurazione.

In Italia si è ipotizzato di affidare il monitoraggio dell’erogazione del credito ai prefetti. Il ministro Tremonti venerdì, da Bruxelles, ha tenuto a precisare che la vigilanza dei prefetti nel settore bancario «non è parte di una strategia di controllo sul credito, ma di controllo territoriale e sociale».

I termini dell’eventuale intervento dei prefetti non sono chiari. Forse si è trattato di un grande equivoco, perché i prefetti erano chiamati in causa solo come catalizzatori di incontri volontari tra banche e imprese per valutare le situazioni dei diversi territori, nel qual caso non vedo invadenze. Detto questo, ritengo che le banche siano dei soggetti di mercato che operano nel contesto di regole alle quali sono preposte delle autorità di vigilanza competenti: e tra queste non vedo i prefetti. Semmai, ogni soggetto istituzionale di grado e ordine superiore deve preoccuparsi che le autorità di vigilanza svolgano nel migliore modo possibile il loro ruolo.

Venerdì il Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Ue ha deciso di portare da 25 a 50 mld il fondo da destinare ad aiuti d’urgenza verso i paesi fuori di Eurolandia. In precedenza, nel vertice di Berlino, la Germania aveva detto no. Fatti come questo costituiscono un vulnus?

L’Europa è non solo un grande ideale ma anche una grande opera, e non dobbiamo commettere l’errore di disgiungere gli ideali dalle opere. È inutile continuare a declamare gli ideali europei se a questi non associamo le opere. La mia impressione è che siamo in una fase di grandi enunciati sugli ideali europei ma di scarse opere di profilo realmente europeo. C’è motivo di essere preoccupati. Penso che un’Europa unita non abbia problemi nel sostenere l’Europa dell’Est, perché malgrado i suoi cento milioni di abitanti la sua dimensione economica e bancaria è contenuta. Ma un’Europa disunita rischia molto, loro e noi.

Secondo lei ci sono realmente stati dell’Est a rischio default?

Sono stati di piccole dimensioni dal punto di vista economico e nessuno di questi ha un Pil lontanamente paragonabile a quello italiano. Per capirci: il Pil della Bulgaria è 28 mld di euro, quello della Repubblica Ceca 127 mld, cioè una media regione italiana; quello della Danimarca, che non è un paese dell’Est, di 227 mld; quello della Polonia di 308 mld, più o meno il Pil della Lombardia. Non credo che un’Eurolandia, che ha un Pil totale di circa 9 mila mld di euro, abbia problemi a fare interventi a sostegno di Paesi membri Ue collocati a Est.

Per uscire dalla crisi bisognerà ripensare una teoria del rischio, la necessità di rientrare nelle regole contabili… insomma, riparlare di regole.

È l’occasione per riparlare di regole, ma è anche l’occasione per non dimenticare che l’eurodemocrazia non si può esaurire nelle regole. Se così fosse sarebbe semplicemente una grande “antitrust”. L’Europa, se vuole proseguire nel XXI secolo la sua grande missione di pace e di sviluppo, dovrebbe perseguire almeno due direttrici. Dal punto di vista della concretezza, Eurolandia deve passare alle cooperazioni rafforzate per affiancare delle politiche economiche a quelle monetarie. A questo scopo dovrebbe emettere titoli di debito pubblico per finanziare spesa pubblica a scala europea per infrastrutture fisiche, immateriali, civili. È una tesi che fu proposta da Delors nel 1992 e che negli ultimi anni è stata ripresa e rilanciata da Giulio Tremonti e da me, ma che non marcia, malgrado abbia molti sostenitori anche nel Palamento europeo.

Recentemente lei ha scritto che occorrerebbe intervenire anche sul Patto di stabilità e di crescita.

Anche il Psc andrebbe modificato per unificare meglio i Paesi di Eurolandia.Con una Uem più forte allora si potrebbe agire meglio anche a vantaggio degli altri Paesi della Uem. Dal punto di vista dei principi e delle loro applicazioni l’Europa deve rinnovare il suo paradigma che noi vediamo fondato sulla trilogia di sussidiarietà, solidarietà e sviluppo e sulla tripartizione equilibrata tra istituzioni, società e mercato.