«Per salvare il lavoro occorre puntare realmente sui contratti di solidarietà. Che vanno finanziati riducendo l’orario e garantendo una retribuzione, e per chi non ha nessuna tutela (collaboratori e precari) dando un’indennità di sostegno per 12 mesi». Ne è convinto Agostino Megale, segretario confederale della Cgil, che ha parlato con ilsussidiario.net dei principali temi al centro del dibattito, dalla tutela dei precari agli ammortizzatori sociali, dalla memoria di Marco Biagi alle relazioni con Cisl e Uil.



Gli ultimi dati Istat danno la disoccupazione in crescita: 6,7 per cento nel 2008 rispetto al 6,1 per cento del 2007. Un suo commento?

Il dato Istat del 2008 è grave. E purtroppo le nostre previsioni per il 2009 sono addirittura peggiori: indicano un tasso di disoccupazione tra il 9,4 e il 10 per cento. Il che vuol dire che, tra quest’anno e i primi mesi del 2010, sono a rischio disoccupazione tra 700 mila e 1 milione di lavoratori.



Come vede le misure varate dal governo, sul doppio versante imprese e lavoratori?

Mi sembrano scarsamente efficaci, sia sul versante lavoro e pensioni che sul versante delle imprese. L’impegno che il premier ha assunto con Confindustria per 1,2 miliardi da destinare al fondo di garanzia per i crediti alle Pmi è importante, ma non è paragonabile alle azioni fatte da altri governi europei come Germania, Gran Bretagna e Francia. Non abbiamo investito i 6 miliardi della Francia a sostegno dell’industria, e non abbiamo varato le riduzioni fiscali o sull’Iva della Gran Bretagna. La stessa social card ha avuto scarsa efficacia.



Ma Germania, Gran Bretagna e Francia non hanno i problemi di debito pubblico che ha l’Italia.

Non è plausibile che il debito ci impedisca di agire, perché la stessa Ue ha dato la disponibilità ad un’azione coordinata che nel 2009 superasse lo 0,2 per cento del debito, senza incorrere per questo in un cartellino rosso. Non è necessario mancare di rigore verso il bilancio pubblico. Facendo azioni in deficit nel 2009, limitate ma tali da consentire un forte sostegno ai redditi, all’occupazione e alle imprese, nel 2010 si potrebbero generare nuovi investimenti, lavoro e domanda, con la possibilità di rientrare dal deficit nel 2011.

Ma il nostro primo interesse è il collocamento, in tempi rapidi, dei nostri titoli di debito pubblico.

È vero che bisogna far fronte all’asta dei titoli, ma è altrettanto vero che la riduzione degli interessi sul debito, che ci frutterà un risparmio di circa 5-6 miliardi, sommata a quel che i lavoratori hanno pagato in più di tasse, circa 7-8 miliardi nel 2008 e all’incremento dell’evasione fiscale nel 2008, tra i 3 e i 5 miliardi di Iva, determina quasi un punto di Pil che poteva essere investito a sostegno del lavoro e dell’impresa. Invece si sono investiti solo 3 miliardi e mezzo.

Come valuta le misure a sostegno del precariato che il governo ha allo studio? È previsto un aumento del 20 per cento dell’indennità di disoccupazione.

Intanto sarebbe importante che l’accordo sugli ammortizzatori fatto con le Regioni, che è positivo ma che ora è inapplicato, diventasse operativo. Bene gli emendamenti, oggi bloccati, con i quali il governo vuole intervenire sugli ammortizzatori, il superamento dei 90 giorni di sospensione per aver diritto agli ammortizzatori in deroga o anche l’aumento dal 10 al 20 per cento del bonus per i collaboratori. Ma sono misure largamente insufficienti soprattutto per i precari non coperti da ammortizzatori e il governo non può limitarsi a fare emendamenti di tipo congiunturale.

Misure strutturali, si dice, non sono possibili. Cosa chiedete?

Bisognerebbe decidere senza mezzi termini che se ad un dipendente in cassa integrazione spetta l’80 per cento della sua retribuzione, ad un collaboratore che perde il lavoro occorre dare almeno il 40, o il 60 per cento. In questa fase il governo deve dare una risposta seria a chi il lavoro lo ha perso e non ha niente. Ma soprattutto, per salvare il lavoro occorre puntare realmente sui contratti di solidarietà. Che vanno finanziati riducendo l’orario e garantendo una retribuzione, e per chi non ha nessuna tutela – collaboratori e precari – dando un’indennità di sostegno per 12 mesi.

Gli accordi finalizzati ad impiegare i lavoratori a tempo ridotto, in modo variabile a seconda dei casi, si stanno diffondendo. Sono la risposta più efficace?

Le formule con le quali si possono attivare modalità di sospensione del lavoro, ricorrendo centralmente all’utilizzo di forme di orario finalizzate, devono avere come vincolo principale che i lavoratori non si distacchino dall’azienda. In questo senso vanno privilegiate rispetto a formule di Cig con persone a zero ore e persone che lavorano in modo pieno. E vanno privilegiate formule di rotazione: meglio quindi la cassa ordinaria rispetto a quella straordinaria. Per questo abbiamo chiesto al governo di raddoppiare, a chi le sta esaurendo, le 52 settimane di cassa ordinaria portandole a 104.

Rievocando la figura di Marco Biagi, il presidente Napolitano ha sottolineato «l’esigenza di uscire da logiche puramente difensive». Qual è l’eredità di Marco Biagi oggi?

L’eredità di un uomo e di uno studioso autenticamente riformista. Sul suo riformismo abbiamo avuto opinioni diverse, soprattutto nella fase in cui Biagi ha collaborato col precedente governo di centro destra in preparazione della legge 30. Ma detto questo, ricorderei sempre che c’è una parte del suo lavoro di cui spesso ci si dimentica: lo statuto dei lavori non è mai stato introdotto. E infatti il problema che abbiamo oggi, e su cui il governo dovrebbe riflettere, è che proprio nel mezzo della crisi ci si accorge che la sbornia di flessibilità senza tutele ha indotto precarietà.

Qual è la vostra proposta?

Auspicherei che il governo, e il ministro del Lavoro, più che fare polemiche nei nostri confronti, attivassero un tavolo per affrontare la crisi, per dare soluzione al tema degli ammortizzatori e delle tutele. Dentro una crisi così grave serviva un tavolo comune promosso dal governo, e uno sforzo di tutte le energie migliori – sindacati, imprese e istituzioni – perché ognuno facesse la sua parte. L’aver lavorato, invece, Confindustria e governo per accordi separati sulle relazioni industriali di sicuro ha rappresentato una decisione miope, perché al tentativo di contenere gli effetti della crisi si è preferito operare una divisione sociale.

Non è stata la Cgil a dire no all’accordo sulla contrattazione?

Questa affermazione non corrisponde alla realtà. Ci siamo trovati il 22 gennaio ad un tavolo convocato dal governo per parlare di crisi, e si è consumato un accordo separato sulle regole contrattuali. La priorità per noi era affrontare la crisi. Affrontare il problema produttività per noi voleva dire poter uscire dalla crisi con una produttività più elevata da ridistribuire. Come si può pensare di poter applicare un secondo livello contrattuale se prima non si esce dalla crisi difendendo il lavoro e l’impresa?

Allora qual è il punto di contrasto che rivendicate a vostro favore?

Il nostro è un discorso riformista e innovativo, perché immagina che la sfida sulla produttività debba realizzarsi garantendo il potere d’acquisto dei salari e allargando la capacità di contrattazione di secondo livello. Quell’intesa separata non ha queste caratteristiche, per questo abbiamo detto no. Ma per questo ci batteremo per riconquistare nei contratti quel modello contrattuale capace di essere efficace per il lavoro e per i tanti lavoratori che sono esclusi da una contrattazione di secondo livello.

La crisi può nuovamente modificare gli equilibri sindacali?

Proprio la crisi impone che pure essendosi consumata una divisione sindacale nell’accordo sulle relazioni, l’unità sindacale vada ricostruita immaginando che anche punti di vista diversi possono convivere. Ma occorre smetterla con operazioni in cui si pensa di poter sostituire la Cgil, che è il più grande sindacato italiano, con sigle che non hanno la nostra capacità di rappresentanza e la nostra rappresentatività. Questo costituisce le basi anche per uno sviluppo futuro e una unità più forte tra noi, la Cisl e la Uil.

Bonanni ha accusato la Cgil di fare politica. Lei cosa dice?

Se porre al centro la difesa del posto di lavoro, o l’indennità di tutela per il precario che non ha niente, o la restituzione fiscale – perché i lavoratori oggi pagano il fisco più di chiunque altro – vuol dire far politica, allora noi facciamo politica, perché ci occupiamo di tutelare nei confronti delle imprese, ma anche delle scelte politiche del governo, le condizioni dei lavoratori.