Non c’è nulla di inedito, o di inatteso, nelle polemiche innescate dal piano Geithner. Da mesi, economisti e politici si dividono sulle ricette per rianimare il sistema bancario americano, ormai sull’orlo della trasformazione in altrettanti zombie, all’apparenza vivi, grazie a iniezioni di denari e di garanzie, in realtà privi di qualsiasi volontà o capacità di azione propria.
Le soluzioni possibili, in sostanza, erano tre: a) nazionalizzare il sistema; b) ripulire i bilanci bancari dagli asset tossici, ovvero quei prodotti scivolati a quota zero sull’onda del collasso dei mercati ma che domani potrebbero valere di più; 3) la formula mista, suggerita da George Soros: separare asset tossici dalla banca buona, ma mantenere le due entità sotto un solo cappello. In via temporanea, il capitale per il rilancio delle banche dovrebbe essere fornito dallo Stato, che finanzierebbe solo l’attività “buona”. In un secondo momento, a fronte del risanamento dei conti, la banca “buona” dovrebbe tornare ai privati che potranno liberarsi anche della banca “cattiva” (con asset nel frattempo rivalutati).
Scartata, per ora, la terza soluzione, il team del Tesoro ha scelto l’opzione b) con grande dispetto di Paul Krugman o di Joseph Stiglitz, per citare due critici illustri, che hanno gridato all’esproprio del denaro pubblico.
Perché tanta ostilità? Perché il piano consente ai privati di fare possibili, ottimi affari a rischio zero. A rischiare (e comunque a pagare) resta il contribuente. Infatti, fatto 100 dollari il valore teorico di un asset tossico, il privato ne pagherà 6, altri 6 li metterà il Tesoro. Il resto finirà a carico dello Fdic, ovvero l’ente di garanzia dei depositi che finanzierà l’operazione con una leva 12 a 1.
Ma il bello è che si tratterà di un “no recourse loan”, per cui la restituzione del debito è legato all’esito dell’attivo che si compra: se le cose vanno bene (ovvero l’asset vale di più del prezzo iniziale) il privato compra. Se vanno male, il coccio resta nelle mani dell’ente pubblico. Una truffa, tuona una parte dell’establishment, già inviperito contro i signori dell’Aig e dintorni. Aggravata dall’asimmetria informativa attorno agli asset tossici. Solo i banchieri che hanno partecipato alla costruzione dei derivati e dintorni hanno una qualche percezione del valore effettivo degli asset tossici, quali abbiano un effettivo margine di recupero e quali no. Una scorciatoia intollerabile per evitare un passaggio, quella della nazionalizzazione, che pure veniva dato per inevitabile anche da alcuni falchi liberali, come lo stesso Alan Greenspan.
Chi difende il piano, così ben accolto da Wall Street, replica che così viene risolto il nodo del prezzo da attribuire agli asset tossici. Certo, sarà una soluzione costosa per i contribuenti. Ma permetterà di accelerare il ritorno alla normalità del sistema bancario, l’emergenza numero uno se si vuol riattivare la leva del credito verso le imprese.
Secondo punto, non meno importante: era vitale per Obama riattivare Wall Street e, di riflesso, l’attività dei fondi pensione. Circa la metà delle pensioni Usa, attraverso i piani 401 (K) è investita a Wall Street: con la crisi sono andati in fumo circa 1.000 miliardi di garanzia sulla vecchiaia. La metà degli americani tra i 55 e i 64 anni sa che, per affrontare decentemente la vecchiaia, dovrebbe ora rimpolpare il suo fondo. Ma non ne ha i mezzi. Ecco perché era così importante e urgente per Tim Geithner «fare la pace» con il mercato azionario, a partire dalle banche.
La partita, naturalmente, non finisce qui. Già l’aveva previsto lo storico Niall Ferguson, al momento dell’insediamento di Barack Obama: le due anime del partito democratico entreranno presto in conflitto. Da una parte la continuità di Geithner (già presidente della Fed di New York) e Lawrence Summers, necessaria per evitare uno scontro frontale con Wall Street. Dall’altra le pulsioni riformatrici che chiedono il ripristino del Glass-Steagall Act e di altri interventi contro il sistema finanziario così come è cresciuto con la benedizione sia della famiglia Bush che di quella Clinton.
Chi vincerà? L’importante è che la frattura non incida sull’efficacia dell’ azione di governo. Per ora si è messa una toppa, nulla di più. Ma quanto hanno ragione a esser preoccupati i leader della Grande Cina.