È stato dunque presentato il piano Geithner e subito si sono scatenate le interpretazioni più contrastanti. Un piano troppo vicino all’establishment finanziario; un “regalo a Wall Street”, “un esproprio di denaro pubblico”, ha detto Paul Krugman. Un provvedimento inevitabile e quindi “dovuto” – hanno detto i difensori – non potendo permettersi gli Usa di far fallire il proprio sistema bancario. I mercati, a quanto pare, hanno benedetto l’operazione. «La cosa indubbiamente positiva  – dice a ilsussidiario.net il senatore Franco Debenedetti – è che il piano va al cuore del problema, e cioè mira a eliminare gli asset tossici dai bilanci delle banche, anziché cercare di risolvere il problema ricapitalizzandole».



Senatore Debenedetti, quali sono le sue impressioni all’indomani della presentazione del piano da parte del segretario al Tesoro Usa?

Indubbiamente il piano è molto sbilanciato a favore dell’investitore privato. Lo stato finanzia l’acquisto con una leva di 6 a 1, paga direttamente metà del prezzo d’asta. Se va bene, il privato guadagna, ma se va male, al massimo perde quello che ha investito.



È lo strumento che farà finalmente funzionare come si deve il sistema del credito?

Dipende cosa intende per funzionare. Se intende che il mercato del credito riprenderà a funzionare normalmente e che le banche ritorneranno a finanziare le imprese, la risposta è sì: se il piano funziona, l’idea è che i privati metteranno soldi nel capitale di banche così ripulite dagli asset tossici. Se invece intende funzionare in modo da essere sicuri che fatti del genere non si verifichino più, allora bisogna dire che questo è fuori dall’obbiettivo del piano Geithner. Dice che cosa fare oggi, non dice cosa fare in futuro per evitare che certi malfunzionamenti, o errori, si ripetano.



Meglio un piano Geithner o la nazionalizzazione? 

Nazionalizzare presenta un problema tecnico, come uscirne e riprivatizzare le banche: ci sono voluti dieci anni per venir fuori dal fallimento di una banca americana come la Continental Illinois, nel 1983, mentre ora parliamo nientemeno che delle cinque o sei maggiori banche americane. Ma quello che più conta è il problema politico. Nazionalizzare sarebbe visto come un pessimo segnale da tutto il mondo industriale, non solo da quello finanziario, le accuse a Obama di essere un “socialista” diventerebbero generali, perderebbe il consenso dei moderati che l’hanno votato, non potrebbe più fare le riforme sociali e quindi perderebbe anche il consenso a sinistra. C’é chi dice che il piano Geithner non funzionerà,  ma che solo il suo fallimento persuaderà gli americani che bisogna nazionalizzare.

Non si sarebbe potuto arrivare prima alla soluzione proposta da Geithner?

Le banche non vogliono fare pulizia al proprio interno, perché per farlo dovrebbero scoprire le carte. Se lo facessero, dichiarando l’entità degli asset tossici che hanno a bilancio, rivelerebbero di essere tutte potenzialmente fallite. E non solo negli Stati Uniti.

Lasciamo le banche, e parliamo dei banchieri, cioè dei loro manager. In che misura sono responsabili? 

C’è una rabbia che sta montando. Prima è quella contro i manager di aziende che sono state salvate con i soldi dei contribuenti e che hanno usato parte di quei soldi per pagare i bonus ai dirigenti. La rabbia è giustificata, ma fare leggi retroattive per farsi dare indietro quei soldi, danneggia uno dei principi base del diritto. È anche logico che i manager delle banche vengano visti come i responsabili dei disastro in cui siamo. Ma anche qui, il principio che il business judgement fatto in buona fede e senza violare le leggi vigenti non è materia sui cui il giudice esercita il suo potere, è un principio cardine su cui si base l’impresa capitalistica. Diversamente l’attività economica si bloccherebbe e nessuno più investirebbe nulla in un qualsiasi progetto. Non a caso si chiama capitale di rischio. Naturalmente i casi Madoff non rientrano in nessuna di questa categorie: quella è una truffa, tant’è che vien perseguita a norma di leggi esistenti. Frodi ce ne sono sempre state, e la catena di Sant’Antonio é un caso da manuale: di codice penale.

La crisi mondiale è grave, siamo alla vigilia del G20 ed è sentita l’esigenza di regole più severe per il sistema finanziario. Obama ha detto che andrà a Londra per chiedere agli altri Paesi di fare di più per stimolare le proprie economie.

Sono molti i fronti su cui i Paesi del G20 dovranno coordinare le loro azioni. Fare in modo che il sistema finanziario torni a funzionare. Stimolare l’economia per evitare che nel frattempo i costi sociali diventino insopportabili. Modificare ove necessario regole e controlli su banche e istituzioni finanziarie, per evitare il ripetersi di questi disastri. Guai se ogni Paese affrontasse da solo e a modo proprio questi problemi. E poi viene la grande partita dei rapporti tra aree economiche.

Hu Xiaolian, vice governatore della People Bank of China, ha confermato di voler continuare a finanziare gli Usa, ma nello stesso tempo ha messo in circolo l’ipotesi di una nuova moneta sovranazionale, centrata su un Fmi riformato.

Questa crisi finanziaria nasce da uno squilibrio di fondo, che era evidente da anni: la Cina risparmia troppo e gli Stati Uniti comperano a debito. La Cina per trovare mercati di sbocco per le merci che produce, compera il debito che l’America contrae per comprarle. E il dollaro si indebolisce, le riserve cinesi investite in dollari si svalutano. Per questo la Cina propone l’uso di diritti speciali di prelievo al posto dei dollari per regolare i rapporti tra stati. È logico che la Cina faccia una proposta del genere, come è chiaro che l’America non vorrà perdere il vantaggio di avere il dollaro come valuta di riferimento. Per questo basterebbe un G2 al posto di un G20: ma in tal caso l’Europa sarebbe tagliata fuori.

Qual è il problema per l’Europa?

Quello di restare con il cerino in mano. Pensiamo ad esempio che fine farebbero le esportazioni europee negli Usa se l’America decidesse di lasciare che il dollaro si svaluti. Il prof. Paolo Savona ha recentemente scritto un libretto “Il governo dell’economia globale” proprio per illustrare un progetto in cui l’Europa sia parte di questo accordo. Ma questo presuppone che l’Europa riesca a parlare con una voce sola. Non sembra che stia accadendo.