Sono passati circa due mesi – era il 12 gennaio – dal primo volo effettuato dalla nuova Alitalia e nella scorsa settimana abbiamo assistito all’inaugurazione del suo primo aeromobile completamente nuovo. Ciononostante, la compagnia di Colaninno e Sabelli continua a trascinarsi critiche, oltre che pressioni dal mondo politico e sindacale. È quasi come se non ci fosse stato nessun cambiamento, come se ancora si avesse davanti la vecchia compagnia di bandiera, e non solo perché il nome è rimasto lo stesso.
Perché avviene questo? Un’ipotesi di risposta la possiamo trovare nella prefazione che Piero Ostellino fa al libro di Andrea Giuricin, “Alitalia, la privatizzazione infinita” edito da IBL libri. Una buona regola – scrive Ostellino – per giudicare una privatizzazione (come è stata quella di Alitalia) è mettersi dalla parte del cittadino, sia come contribuente che come fruitore del servizio. Se al cittadino-contribuente l’operazione non costa e il cittadino-fruitore ci guadagna, il giudizio non può che essere positivo.
Come è stato più volte spiegato, la privatizzazione di Alitalia non ha avuto queste caratteristiche e anzi ha portato a dei peggioramenti in tempi brevi (molti devono ancora dispiegarsi completamente) tali da far impallidire il vecchio carrozzone statale, capace di bruciare diversi miliardi di euro nel corso degli ultimi 10-15 anni.
Scorrendo le pagine del libro di Giuricin, anche attraverso molti dati, ci si imbatte nel grottesco e tragicomico mondo della vecchia compagnia di bandiera, capace di rimanere immobile come un monolite mentre il mondo intorno a lei cambiava radicalmente: la liberalizzazione dei cieli portava sugli aerei più persone di prima, ma Alitalia è riuscita persino a diminuire i suoi voli; le compagnie low cost (va ricordato anche grazie agli aiuti di Stato dati dagli aeroporti minori italiani) mostravano alle grandi quant’era importante la competizione sulla produttività dei lavoratori, ma alla Magliana le ristrutturazioni rimanevano sulla carta; i vettori si aggregavano per non fallire, e Alitalia riusciva a mettere in fuga l’alleato Klm quando ancora era più forte e grande degli olandesi; non ultimo, la compagnia italiana è riuscita a farsi superare da quella spagnola, l’Iberia, che privatizzata da Aznar ha fruttato al governo di Madrid oltre 500 milioni di euro (oltre ad aver liberato i contribuenti di circa 1 miliardo di debiti).
Verrebbe quasi da ridere se solo non fosse tutto vero. Tra le pieghe delle vicende di Alitalia, riusciamo anche a scoprire che i suoi alti costi di gestione non dipendevano tanto dai dipendenti. Contrariamente a quanto si potesse pensare, la voce dei costi relativi al personale veniva dopo quella del carburante (colpa anche di una flotta obsoleta rispetto ai concorrenti) e del marketing (non abbastanza efficace dato che gli aerei di Alitalia viaggiavano con meno passeggeri di quelli dei suoi concorrenti).
E così solo quando ci si è accorti che il monolite stava sprofondando ci si è decisi a cederne il controllo pubblico in un’insensata corsa al ribasso, quasi a fare in modo che lo Stato, e quindi i contribuenti, avesse più da perderci che da guadagnarci. Non serve neanche ripercorrere la storia dell’ultimo anno per ricordare in che condizioni è avvenuto il passaggio del vettore nazionale (o meglio, della sua “parte buona” senza debiti) alla “cordata” di Cai.
Ora semmai è il caso di capire che futuro ha la nuova compagnia, anche se non pare essere molto roseo. Il piano industriale messo a punto sembra infatti essere ancora una volta (nella storia del vettore italiano) anacronistico: mentre tutte le compagnie cercano di espandere la propria quota di voli intercontinentali, la nuova Alitalia punta tutto sul mercato interno. Il perché di questa scelta è abbastanza semplice: sul mercato interno c’è un monopolio protetto dalla legge che garantisce introiti nel breve periodo; scommettere sull’intercontinentale vorrebbe dire investire in nuovi aerei, scegliere un aeroporto di riferimento e vedere quindi gli utili a distanza di anni.
Una scelta miope, perché non destinata a produrre benefici per molto tempo: nel 2011 scadrà infatti la deroga all’antitrust che permette alla compagnia di avere il suo monopolio, allora anche l’Alta Velocità ferroviaria con ben due vettori (Ntv oltre a Trenitalia) farà concorrenza alla redditizia Milano-Roma e nel frattempo le low cost e le altre compagnie non saranno rimaste con le mani in mano.
La nuova compagnia sembra quindi esser partita senza il carico di debiti della vecchia Alitalia, ma con la stessa logica di carrozzone sprovvisto di strategia che già la sta portando a realizzare perdite nei suoi primi mesi di vita. Logico pensare quindi a un passaggio di mano totale ad Air France, che già ora è il socio di maggioranza della compagnia.
Quella svolta che appariva auspicabile e realizzabile attraverso una proprietà privata (lontana dalla politica) non è quindi avvenuta. Forse sarebbe ora che fosse la politica stessa a voler lasciare più spazio ai privati nel campo dell’economia. Ed è per questo che l’autore del libro indica alcune strade da intraprendere.
Innanzitutto la liberalizzazione dei voli intercontinentali, creando così più mercato per le rotte a lungo raggio. Segue poi la privatizzazione e la concorrenza tra gli aeroporti, che possono portare a tariffe più basse per gli utenti, oltre che a un maggior numero di destinazioni. Servirebbe poi un mercato secondario degli slot, ovvero delle fasce orarie a disposizione dei vettori in un determinato aeroporto. Ciò anche per evitare che vi siano compagnie (come la stessa Alitalia) che non li usano pur avendoli, bloccando di fatto l’arrivo di concorrenti (che di fatto sono ormai solo stranieri). In conclusione Giuricin chiede anche un controllore indipendente (nel libro non mancano graffianti critiche all’ente preposto, cioè l’Enac) per il settore e lo sviluppo della concorrenza anche sulla rete ferroviaria, proprio perché possa sviluppare una maggiore competizione con il trasporto aereo, con benefici per il cittadino-fruitore.
Questi passaggi possono forse almeno in parte compensare la lunga e costosa “privatizzazione” (le virgolette sono d’obbligo in questo caso) di Alitalia, la quale, oltre a non aver portato un soldo in tasca allo Stato, ha fatto sì che quest’ultimo andasse a cercarli nelle tasche degli italiani (vedasi il varato aumento delle tasse aeroportuali destinato a pagare la cassa integrazione degli ex dipendenti della Magliana).
Se dagli errori si può imparare, è forse il caso che questo libro giunga nei palazzi del Ministero dell’Economia e di quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, perché già ora si parla di privatizzare un altro carrozzone, stavolta dei mari, ovvero Tirrenia.