Il professor Tony Atkinson rappresenta il perfetto stereotipo dell’uomo di studi d’Oltremanica: dimesso nell’abbigliamento, sguardo attento, un’umiltà che fa a pugni con lo spessore intellettuale e una grande, sincera cordialità. A Roma come relatore del convegno “Crisi, sussidiarietà ed economia di mercato” promosso dall’Intergruppo per la Sussidiarietà e dal Network delle Fondazione presso la Sala della Regina della Camera dei Deputati, il senior research fellow del Nuffield College di Oxford ha presentato uno spaccato molto duro della realtà dei sistemi di protezione sociale in tempi di crisi.



Professor Atkinson, questa crisi è nata finanziaria ma ora sta trasformandosi pericolosamente in una crisi di natura prima economica e poi sociale. Cosa ne pensa?

«Assolutamente sì. E per questo penso che vadano cercate soluzione collettive, condivise per porre fine a uno dei rischi principali che questa crisi porta con sé: ovvero il fatto che saranno proprio i soggetti più deboli e meno protetti a pagare il prezzo maggiore. Siamo di fronte a un rischioso allargamento della forbice tra settori differenti della società: gli immigrati, i giovani non tutelati, i lavoratori espulsi dal ciclo produttivo in età che non consente una facile riconversione necessitano di tutele. Il problema è che un’armonizzazione è difficile visto che i vari Stati, anche nella stessa eurozona, hanno politiche e sistemi di welfare molto differenti tra loro. Non ritengo, come dice qualcuno, che lo Stato debba limitarsi al ruolo di arbitro: il dopoguerra è stato un fulgido esempio di come i governi abbiano giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo del welfare state, un istituto che ha aiutato e supportato crescita ed economia. Ora, ripeto, occorre trovare strumenti efficaci per proteggere i nuovi poveri, i soggetti più a rischio e bisogna che i governi lo facciano insieme».



Quindi lei pensa che un’assise come il G20 possa dare delle risposte concrete?

«Sicuramente dovrebbe provarci ma dobbiamo anche partire dal presupposto che a questo incontro si arriva in condizioni molto gravi: disoccupazione montante, Pil in calo, crescita pressoché zero. Detto questo Europa e Usa sono in condizioni molto diverse tra loro, visto che ad esempio gli Stati Uniti prima di entrare in depressione hanno vissuto un lungo e ininterrotto periodo di crescita. Ora il punto su cui focalizzare l’attenzione è quello del problema occupazionale che ci presenta una duplice sfida: non dobbiamo solo chiederci in quanti perderanno il lavoro ma anche chi lo perderà e temo che la risposta sia l’implicazione di almeno tre generazioni di lavoratori».



Quindi, quale ricetta?

«Avessi la risposta o la ricetta in tasca sarei un uomo felice ma non è così, certamente posso dire che la politica monetaria è fondamentale, così come quella fiscale. Il processo di stabilizzazione messo in atto sul lungo periodo dalla Bce ha consentito all’eurozona di stare relativamente meglio ad altre realtà. Servono politiche di stimolo fiscale, servono interventi sui redditi e sulle reti di protezione ma questo deve avvenire all’interno del quadro normativo e ideale di una vera economia sociale di mercato: questo perché lo Stato non è un buon imprenditore e non è un sostituto del mercato. Ripeto, occorre trovare un punto di sintesi perché senza un’armonizzazione di massima è difficile coordinare gli interventi. Basti prendere i numeri dei pacchetti di stimolo fiscale messi in campo dai vari governi: negli Usa pesano per il cinque per cento del Pil, in Germania per il 3,4 per cento, in Gran Bretagna per l’1,5 per cento e in Italia per l’0,3 per cento. Sono differenze molto grandi, soprattutto per quanto riguarda paesi e aree omogenee come i tre paesi dell’Ue. Stiamo andando incontro al rischio di riduzione drastica della protezione sociale pubblica e questo sarebbe un errore madornale in questo momento, questo ovviamente evitando derive stataliste e dirigiste che vedano lo Stato divenire erogatore di servizi e beni in regime di quasi monopolio».

In molti chiedono fortemente nuove e più rigide misure di regolamentazione dei mercati per evitare distorsioni o speculazione: lei cosa ne pensa?

«Penso che la gente sia troppo ottimistica su quanto si possa ottenere dalla regolamentazione, a mio avviso per evitare altre degenerazioni come quelle che stiamo vivendo servono etica e morale, servono un nuovo standard di credibilità nel mercato finanziario. Le regolamentazioni, di fatto, hanno sempre delle falle e offrono sempre possibilità di essere aggirate. Serve etica, la stessa che avevano i quaccheri che infatti crearono dal nulla la più grande banca britannica».

(Mauro Bottarelli)