Al vertice del G20, giovedì prossimo a Londra, c’è un convitato di pietra: mister Dollar. Lo hanno evocato i cinesi con brutale schiettezza, rompendo il fariseismo degli europei, che parlano tanto di regole e fanno poco in sostanza, ma anche la puritana reticenza degli americani. Il segretario al Tesoro Timothy Geithner ha replicato che il dollaro resta la valuta mondiale e gli Usa torneranno a offrire vantaggiose condizioni agli investimenti asiatici. Tuttavia l’Impero di Mezzo ha rotto l’incanto, ponendo una questione vitale.



Non c’è nuova Bretton Woods se non si affrontano gli squilibri fondamentali tra i grandi paesi che vengono rispecchiati dalle bilance dei pagamenti. Le quali possono essere aggiustate con nuovi rapporti tra le valute. A Bretton Woods, nell’agosto 1944 venne stabilito l’aggancio del dollaro all’oro secondo un rapporto fisso e stabile, punto di riferimento per il sistema mondiale dei pagamenti. Rifiutando l’introduzione di una moneta artificiale, il Bancor, come proposto da Keynes. Questo schema venne rotto nel 1971 da Nixon perché gli Usa non riuscivano a tenere più il rapporto di cambio, data la pressione della guerra del Vietnam da un lato e delle grandi riforme sociali dall’altro. I twin deficits (estero e pubblico) richiedevano, per essere colmati, una valuta libera di muoversi.



Il passaggio da una decisione presa per stato di necessità al regime dei cambi fluttuanti, fu conseguenza della crisi petrolifera. A metà degli anni ‘70, nacque così un nuovo sistema internazionale che è stato la conditio sine qua non della globalizzazione mercantile e finanziaria. Il gold dollar standard di Bretton Woods non avrebbe consentito il big bang degli anni ‘80 né la liberalizzazione dei commerci degli anni ‘90.

Se oggi volessimo davvero stroncare la finanza selvaggia, dovremmo imporre un controllo sui cambi (quanto meno per quel che riguarda i movimenti valutari non mercantili). Ciò metterebbe fine al mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni per rientrare nel mondo chiuso del protezionsimo. Un rischio da evitare in assoluto. Insieme a quello di un collasso del dollaro.



Né il crack finanziario né la recessione hanno depresso il biglietto verde. La sua tenuta è una condizione per il ritorno della fiducia a Wall Street e, di qui, al mondo intero. Tuttavia ciò ritarda l’aggiustamento macroeonomico, con quel che esso significa per i grandi flussi di monetari. Che fare? È realistico pensare a uno spostamento massiccio dei capitali cinesi verso l’euro, il franco svizzero e la sterlina? Sul piano economico lo è, ammesso che l’Europa possa offrire rendimenti migliori. Sul piano politico no, perché la Cina punta ancora su un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, anche se a condizioni più favorevoli per lei. Il G20 contiene al suo interno questo G2 (come viene chiamato) che lo condiziona in modo determinante.

L’Eurolandia stenta a inserirsi nella coppia sino-americana. Angela Merkel ha di nuovo respinto la proposta di aiutare gli Usa reflazionando con maggiore energia, secondo il principio di mutua assistenza (i paesi in surplus dovrebbero sostenere quelli in deficit). La politica di Trichet e quella della Germania che da sempre lo ispira, punta decisamente su un cambio forte. La Bce, dunque, persegue una propria ambizione di potenza, cioè vuol sostenere Pechino per ridimensionare Washington e Wall Street? Una dose di velleitario gollismo in salsa monetaria non è da escludere. Ma l’Unione europea sembra più preoccupata dalle proprie fratture che rischiano di dilaniarla. Quella tra Est e Ovest e quella tra Nord e Sud, con i paesi del tanto sbeffeggiato Club Med, di nuovo vulnerabili. A ciò si aggiunge il distacco progressivo delle isole britanniche.

Una gestione coordinata dei cambi, il mantra multilateralista, sarebbe bella se si potesse fare. Un po’ come il governo mondiale. I cambi fissi è un leitmotiv che si ripete inutilmente dal 1971. L’oro è fuori gioco. Più realistico un accordo simile a quello del Plaza che nel 1985 mise fine al superdollaro reaganiano.

Si potrebbe ripescare un’idea lanciata da Paul Volcker prima di lasciare la Fed nel 1987: stabilire delle target zones, cioè una forchetta nelle oscillazioni tra le principali valute che i governi si impegnano a mantenere. Volcker è tornato in auge come superconsigliere di Obama. Vedremo se riuscirà a rinverdire la vecchia proposta. Sapendo che non esiste una formula magica, perché i movimenti monetari sono lo specchio di più profondi movimenti come ricordava il grande storico francese Marc Bloch.