Quando Milton Friedman e Martin Feldstein, negli anni Novanta, vaticinarono che l’euro appariva come una grande impresa, ma che al contempo correva anche a loro giudizio il rischio di saltare alla prima grande tempesta dei mercati, il 99% degli interlocutori europei fecero spallucce, e sorrisero accusando i monetaristi americani di essere spaventapasseri fuori dal tempo. Venerdì della settimana scorsa, in un meeting riservato a Londra, è stato l’ex governatore della Bundesbank Karl Otto Poehl, un uomo di rigore e prudenza da cento carati che alla nascita dell’euro ha conferito il marchio dell’ortodossia degli interessi del marco e della sua Germania, a dichiarare – nello stupore e nella preoccupazione generale – di non essere in grado di escludere tassativamente che, così continuando, l’euro non entri in crisi nel 2009 o nel 2010. L’unico giornale europeo a riportare la notizia è stato il Daily Telegraph, in un commento di Ambrose Pritchard Evans che ha fatto fare un salto sulla seggiola a un bel po’ di banchieri e finanzieri in mezzo mondo.
Anche l’ex banchiere centrale tedesco ha descritto la situazione alla quale faceva riferimento ieri Carlo Pelanda. Gli spread sul Bund dei Paesi più a rischio dell’euroarea, Grecia Irlanda e Spagna, potrebbero conoscere picchi sconosciuti in presenza di default di Paesi come le tre repubbliche baltiche, o esterni all’euroarea ma a forte delocalizzazione europea nei Balcani e nell’Est Europa, e per effetto dell’impossibilità di Paesi in avvicinamento all’euro, come Polonia e Ungheria, di persistere nel sentiero previsto di stabilizzazione dei propri aggregati in vista dell’aggancio definitivo all’euro.
Vi sono almeno due problemi di ordine e impatto diverso. Le banche più esposte in quei Paesi, a cominciare da quelle austriache fino a Unicredit che vi realizza oltre il 30% dei propri ricavi, rischiano di veder svalutati nominalmente i propri asset in un ordine di grandezza tra il 40 e il 60%, per il solo effetto di un eventuale deprezzamento delle valute locali. Inoltre, analoghi effetti si potrebbero produrre per tutte le imprese che hanno delocalizzato in quei Paesi, con impatti sui loro bilanci patrimoniali e non solo sul conto economico.
In Italia, in particolare mi consta personalmente al ministero dell’Economia, questi scenari appaiono troppo catastrofici. In definitiva, è vero che al Consiglio europeo di domenica scorsa la Germania ha fatto passare ancora una volta il principio del “niente programmi comuni di aiuto”, e del “a ogni paese a seconda delle sue condizioni e virtù”. Ma negli ultimi due mesi il Fmi ha già impegnato circa 25 miliardi di dollari, a sostegno di quelle economie. E se il Fmi chiede – e otterrà verosimilmente entro il prossimo G20 di aprile – di raddoppiare la propria capacità di prestiti straordinari da 250 a 500 miliardi di dollari, in larga misura questa maggior capienza è proprio in preparazione di eventi di tale portata.
Tuttavia questo appartiene all’ordine del possibile, esattamente come una crisi generale di quei Paesi appartiene anch’essa all’ordine del possibile. Il commissario Almunia ieri ha dovuto rapidamente correggersi, quando prima ha accennato all’ipotesi di un default di qualcuno di quei Paesi come eventualità concreta, poi di fronte allo sfascio che provocava sui mercati ha dovuto aggiungere che l’eventualità verrebbe scongiurata da interventi d’emergenza.
L’interrogativo di fondo che da ottobre in avanti ha preso a manifestarsi nelle cancellerie europee non è quello della possibilità di aiuti straordinari, siano essi realizzati dai governi oppure dalle banche dell’eurosistema, o dalla collaborazione tra questi due attori con fori internazionali come il Fmi. L’ipotesi che ha dell’impensabile è un’altra. E cioè che la Germania, il Paese che ha dettato forme e modi dell’euro – anche per spartire i costi della sua unificazione – possa nutrire con crescente forza nel tempo un retropensiero sempre più temibile, per noi tutti. Preferire la tutela diretta tedesca per quei sistemi e Paesi anche esterni all’euro in cui la Germania appunto ha delocalizzato di più, alla condivisione di oneri e sforzi volti a “reggere insieme” l’intera euroarea, compresi paesi come l’Italia – che per la Germania è il più temibile concorrente europeo nella manifattura – la Spagna, la Grecia, e la stessa Gran Bretagna che, in prospettiva, potrebbe bussare alle porte dell’euro.
È più di un interrogativo. È un’ipotesi inquietante. L’Italia e la Francia devono tenerne conto. Ed essere pronte ad azioni comuni. L’impensabile può avvenire. E chi non lo mette in conto, non ha capito nulla della crisi epocale regalataci della finanza “all’americana”.