I 26 maggiori produttori italiani di pasta, per intenderci tutti o quasi i principali marchi a cui come consumatori siamo abituati, sono stati colpiti nei giorni scorsi da una sanzione di 12,5 milioni di euro inflitta dall’Antitrust.
La notizia è stata ripresa immediatamente dai quotidiani e dai telegiornali che ne hanno ampiamente riferito intendendo che il provvedimento rientri nella prevenzione dei fenomeni speculativi innescati dagli oscuri gnomi dell’industria o del commercio. Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano esattamente in questi termini?
Occorre prudenza nel giudicare l’operato dell’Antitrust e rispetto nei confronti delle conclusioni a cui è pervenuta dopo un’indagine durata un paio d’anni. Dunque, non mettiamo in discussione le ragioni della sanzione, ma vorremmo svolgere qualche considerazione sulla vicenda per gli aspetti che essa coinvolge, in attesa degli sviluppi.
Il settore è uno dei più chiari esempi dell’alimentare italiano sia per il legame con il nostro modello di consumo, sia per l’immagine forte del prodotto “pasta”, sia per il rilevante peso dell’esportazione che sostiene. Il comparto vale, nel 2007, circa 3,7 miliardi di euro e vi operano 130 imprese. Le 26 colpite dalla sanzione, tuttavia, rappresentano il 90% di un mercato che per circa il 55% è nazionale e per il resto estero.
In queste condizioni è oggettivamente difficile pensare che un numero così elevato di imprese possa aver messo in atto una strategia di manipolazione della concorrenza, notoriamente un’operazione proibita e sanzionabile che può verificarsi quando i “cospiratori” sono pochi e di fatto controllano il mercato. Per capirci possiamo dire che alla quota del 90% si arriva, nella generalità dei settori industriali e anche nell’alimentare che è meno concentrato con 5-10 imprese. Dunque il sospetto appare effettivamente difficile da condividere.
D’altro canto negli ultimi mesi i prezzi dei cereali, e in particolare del frumento, sono stati oggetto di un’improvvisa e forte fiammata, seguita da un altrettanto repentino crollo. È successo per la maggior parte delle materie prime, a partire dal petrolio, dunque nulla di eccezionale, se non fosse che il settore alimentare era in passato più protetto e quindi meno esposto a questi eventi. Perciò pensare a fenomeni collusivi, in un simile contesto, risulta molto azzardato.
In questo periodo non sono mancati fenomeni di maggiore gravità ed evidenza che fanno ritenere il comportamento dei pastai, se confermato, obbiettivamente minore nei suoi effetti sia complessivi sia sul singolo consumatore. Un rapido calcolo dimostra che l’eventuale danno si limiterebbe a pochi euro l’anno a persona, anche se un consumatore avveduto in tutti questi mesi avrebbe potuto comunque trovare pasta a prezzi costanti grazie alle promozioni messe in atto dalla grande distribuzione e dagli stessi produttori. Già le variazioni delle tariffe dei telefonini, a loro volta sanzionate, coprono un maggiore costo, ma basta pensare all’incremento dei quotidiani per capire che su base annua vi è una sensibile disparità, anche perché la pasta è scesa, mentre i prezzi citati…
Un altro aspetto più tecnico riguarda il fatto che gli acquisti della materia prima avvengono con mesi di anticipo sulla messa in commercio e quindi scontano un gap temporale che esclude un adattamento immediato dei prezzi, ma che consente di mediare con l’acquisto di partite a prezzi diversi le eventuali punte, infatti i prezzi italiani sono saliti meno di quelli mondiali.
Entra in gioco, a questo punto, il problema della forte internazionalizzazione del comparto. L’Italia dipende dal mercato mondiale del grano duro per circa il 40% del suo fabbisogno, sia perché non ne produce a sufficienza, sia perché qualitativamente il nostro grano duro deve essere miscelato per dare pasta con le caratteristiche che ne fanno un prodotto superiore. Nello stesso tempo esportiamo, come si diceva, il 45% della pasta prodotta. Forse nell’applicare la sanzione l’indagine avrebbe dovuto considerare di più questi aspetti, ragionando su un mercato più vasto di quello nazionale, come si è fatto in passato per altri prodotti, anche alimentari.
In tutto ciò, però, ci sembra di scorgere una grande “voglia di gendarme”, un atteggiamento a cui noi italiani non sappiamo sottrarci: abbiamo creato una valanga di Autority per tutto, abbiamo inventato un incomprensibile Mr. Prezzi, che si è addirittura dimesso, forse in crisi di identità, vogliamo i Carabinieri, la Polizia e la Guardia di Finanza a controllare tutto: siamo sicuri che sia la strada giusta?
Secondo noi, la risposta è ovviamente negativa. Questi sono ritorni di uno statalismo mai sconfitto e deleterio. Devono essere le forze di mercato a esprimere premi e sanzioni, il ruolo del “gendarme” e cioè dello Stato è quello di essere arbitro della partita e di dettare le regole, non di entrare in campo come giocatore. È difficile sostenere questa tesi in giorni di confusione e di turbamento come quelli attuali, ma non vi è altra strada se ci si vuole sottrarre al rischio della perdita della libertà economica.
I primi commenti a caldo degli autoproclamati rappresentanti dei consumatori e di una parte del mondo agricolo fanno temere il peggio perché aizzano alla caccia alle streghe, chiedendo la restituzione del maltolto ai consumatori e agli agricoltori: attenzione, non vorremmo che su questa strada il prossimo passaggio fosse l’assalto ai forni o ai granai, magari con la tacita assoluzione di qualche Autority.