Le analogie fra la crisi del Giappone negli anni ’90 e quella degli Stati Uniti nel 2008 sono sempre più vicine: in entrambi i casi la causa centrale è stata la crisi finanziaria seguita allo scoppio della bolla immobiliare a cui ha fatto seguito un’improvvisa crisi di fiducia, così come in entrambi i casi la politica monetaria, di salvataggio e ricapitalizzazione delle istituzioni finanziarie è stata finora simile.



In Giappone il momento scatenante della crisi fu il fallimento della Sanyo e della Banca Takushoku nel novembre del 1997, così come il momento scatenante dell’attuale crisi è stato il fallimento della Lehman Brothers il 15 settembre 2008: in entrambi i casi le autorità politiche si trovarono rapidamente prive di strumenti di intervento e furono costrette a intervenire con provvedimenti di emergenza per fronteggiare la crisi, a partire da un rafforzamento delle garanzie sui depositi fino all’iniezione di capitale nelle banche e in casi estremi alla loro nazionalizzazione.



Un’esperienza comune è l’importanza di una credibile autorità di vigilanza e controllo da parte della Banca Centrale e la nazionalizzazione temporanea può rappresentare una soluzione efficace. La lezione centrale della crisi giapponese, e di quello che ormai viene chiamato il suo “decennio perduto”, è che gli interventi finanziari, per quanto efficaci, hanno comunque avuto una durata di breve periodo: infatti l’uscita effettiva dalla crisi è iniziata a partire dal 2003, con l’aumento delle esportazioni mondiali e la fase espansiva della globalizzazione, di cui non si possono trascurare le implicazioni sulla crisi corrente.



Infatti l’aumento imponente della domanda in Brasile, India, Cina e Russia, (i paesi BRIC), ha ulteriormente sostenuto il “momento speculativo” sui mercati di tutte le “commodities”, finanziato dalla massa di liquidità disponibile a livello mondiale e favorita dall’assenza di regole, in particolare per le banche d’investimento e gli hedge fund.

La crisi giapponese degli anni ’90 si differenzia tuttavia per una aspetto centrale e cioè il fatto che è rimasta contenuta all’interno del Giappone stesso: la spettacolare crescita degli Stati Uniti negli anni ‘90, senza pressione inflazionistiche, non sarebbe stata possibile se l’economia giapponese degli anni ’90 fosse cresciuta ai ritmi degli anni ’80.

La differenza centrale fra le due crisi è che a differenza del Giappone degli anni ’90, gli Stati Uniti hanno utilizzato in modo sistematico e massiccio le nuove tecniche di cartolarizzazione, in un clima mondiale differente, nel quale il conflitto d’interessi è diventato un problema endemico. Nel Giappone degli anni ’90 la crisi economica e finanziaria fu seguita dalla deflazione e il ristagno economico: la crisi globale che ha come origine gli Stati Uniti rischia di accompagnarsi altresì a un contagio deflazionistico.

Un recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale (Gauging Risks for Deflation) ha cercato di stimare la vulnerabilità dei diversi paesi al rischio di deflazione: il Giappone è il paese più a rischio, seguito dagli Stati Uniti, e in Europa da Germania, Italia e Francia: una politica europea è quindi una necessità e non solo un’opzione. Il rischio di una propagazione da Giappone e Stati Uniti è perciò oggi più elevato.

In particolare in Giappone la domanda interna è in diminuzione dal 1995, così come la propensione al risparmio, mentre paiono essere ormai mutate in modo permanente anche le attitudini di consumo della popolazione giapponese, sempre più anziana e frugale, perché sempre più preoccupata della debole rete di sicurezza sociale e dalle ridotte pensioni, molte delle quali falcidiate dalla caduta delle Borse. L’unità fondamentale di consumo è la famiglia e ancora di più la catena generazionale di nonni, genitori e nipoti: la riduzione della pensione dei nonni rischia perciò di tradursi in minori risorse per i nipoti.

L’esperienza del Giappone, così simile all’Italia, indica che per aumentare la domanda occorre accrescere la disponibilità di reddito dell’intera catena generazionale e soprattutto restituire valore e stabilità al lavoro dei genitori.