Le ultime, in ordine di tempo, sono le previsioni di Bankitalia per il 2009: Pil in calo del -2,6%. Ma la crisi economica ha dimostrato – secondo Marco Fortis – che non basta il Pil a misurare la crescita e lo stato di salute di un’economia. «Prendiamo gi Usa. Quando un paese ha famiglie indebitate nella stesa misura del Pil c’è qualcosa che non funziona. Mentre la capacità di risparmio delle nostre famiglie ci mette al sicuro. Ha fatto bene il governo a predisporre i Tremonti bond; ora faccia un attento monitoraggio dell’erogazione del credito». Qual è lo stato di salute della nostra economia e dove va la crisi? Lo abbiamo chiesto a Marco Fortis, economista e vicepresidente della Fondazione Edison.



Quasi ogni giorno vengono diffusi dati peggiorativi della nostra economia. Bankitalia ha stimato il nostro Pil 2009 in calo del -2,6 per cento.

Ma tutti i dati macroeconomici, in questo momento, sono costantemente rivisti al ribasso. Non sta capitando in Italia nulla che non capiti altrove. Qualche giorno fa il Pil Usa del quarto trimestre 2008 è stato clamorosamente rettificato al ribasso: -6,2 per cento rispetto a trimestre precedente. È un calo che coinvolge tutte le economie, com’è avvenuto nel 1975.



Anche allora vi fu per tutti una drastica contrazione del Pil. Siamo tornati a trent’anni fa?

No, perché si tratta di una crisi completamente diversa. Allora fu una recessione fulminea, indotta quasi artificialmente dalle autorità finanziarie, che rialzarono i tassi per contrastare l’inflazione da petrolio e da materie prime. Vi fu una contrazione del Pil ovunque, è vero, ma dopo un anno si era praticamente tornati ai valori precedenti la crisi. Allora si poté prevedere la durata della crisi perché la si era provocata, ma ora c’è la più completa incertezza perché si è contratta l’intera domanda mondiale.



La crisi sembra aver colpito anche i paesi produttori ed esportatori asiatici. In Giappone la produzione industriale ha fatto segnare un calo del 10 per cento tra dicembre 2008 e gennaio 2009.

In primo luogo Paesi come Usa, Irlanda, Gran Bretagna e Spagna hanno determinato una malattia indotta, basata sul contagio dei titoli tossici. In secondo luogo se nessuno consuma e investe più, i Paesi produttori vengono anch’essi colpiti dalla crisi. Ecco perché la Cina è forse più in crisi di quanto potrebbe apparire a prima vista. E tuttavia non solo intende basare il proprio modello di sviluppo sulla domanda americana anziché sviluppare il mercato interno, ma comprerà, come ha fatto finora, titoli del debito pubblico americano. Se Cina e Usa stringono un patto per sostenersi a vicenda potrebbe essere l’Europa a pagare il conto più salato.

Francesco Giavazzi, in un recente editoriale, ha scritto che è come se “le economie del mondo fossero state tutte rase al suolo da un bombardamento globale, come la Germania nel ’45. Ma non c’è stato alcun bombardamento – continua – le aziende, le case e le risorse naturali sono ancora tutte lì. “È la sfiducia – conclude – che ha trascinato il mondo in questa situazione assurda ed è da lì che occorre partire”.

Le case e le fabbriche ci sono ancora ma il bombardamento c’è stato eccome: ed è stato fatto nei portafogli delle famiglie. Che poi si siano esposte volontariamente ai “bombardamenti” e che poi abbiano continuato ad indebitarsi fino a finire loro stesse nel baratro, è un altro discorso. Ma quando un paese ha famiglie indebitate nella stesa misura del Pil c’è qualcosa che non funziona. Non si può parlare di un’economia sana come se non fosse successo nulla, tranne il venir meno della fiducia.

Obama ha dichiarato guerra alla crisi. Basteranno le misure annunciate?

La realtà è che le famiglie non sono più in grado di spendere, e anche se Obama taglia un po’ di tasse o dà qualche indennità di disoccupazione, non si può pensare che gli americani si mettano a consumare come prima, perché hanno capito di avere troppi debiti e si sono accorti che non potranno più rientrare.

Qual è invece lo stato di salute della nostra economia reale?

Ha una struttura sana ma è colpita dalla malattia, esattamente come è accaduto per la Cina, il Giappone, la Germania. Il nostro vantaggio rispetto a questi tre paesi è che anche noi siamo esportatori ma non siamo quanto loro dipendenti dalle esportazioni. È vero che siamo più esposti alla crisi nella nostra parte più dinamica del paese. Quasi tutti i nostri settori sono alle prese con cadute degli ordini che vanno dal 30 al 50 per cento, ma il nostro paese ha una situazione migliore nei fondamentali di banche e famiglie.

I Tremonti Bond puntano ad elevare il quoziente patrimoniale della banche che ne facessero richiesta. Lo strumento non rischia di riproporre una divisione selettiva tra banche maggiori, quotate, alle quali è garantito l’accesso ai bond, e banche territoriali?

Ma le banche di credito cooperativo, per esempio, non hanno nessun bisogno dei Tremonti bond perché hanno i bilanci a posto. La stessa Banca d’Italia ha confermato che hanno continuato a erogare il credito alle Pmi, e anzi negli ultimi tempi hanno addirittura preso quote di mercato. Questo perché hanno sempre fatto il loro mestiere, quello della banca di relazione, del territorio.

Sarei invece favorevole a che venisse introdotta l’obbligatorietà della quotazione per tutte le obbligazioni di banche di una certa dimensione, perlomeno di quelle che sono quotate. I risparmiatori devono sapere quanto vale l’obbligazione in cui hanno investito. Questo potrebbe realmente dare una grossa mano a ricostruire la fiducia.

In un modo o nell’altro si torna alle banche. E quelle Usa sono più colpevoli delle altre. L’ipotesi di nazionalizzarle ha fatto discutere.

La caduta delle borse ha fatto cadere ulteriormente i ratios patrimoniali delle banche, ma non possiamo dire che questa situazione è colpa della caduta delle borse. Sono le banche che si sono cercate questo disastro, assecondate – bisogna dirlo – da una classe politica che credeva di aver trovato il pozzo di san Patrizio. Siamo in presenza di una malattia profonda del capitalismo anglosassone. Lungi da me dire che va curata con lo Stato, ma se si vuole evitare la catastrofe occorre fare qualcosa. Se a farlo dev’essere lo Stato, lo faccia e poi se ne torni dov’era. Però devono spiegarci come mai prima si dice che non c’è bisogno di nazionalizzare Citigroup e dopo tre giorni lo Stato entra col 36%.

Torniamo al nostro Paese. Chi accuserà il colpo della crisi più degli altri?

Questo è un altro aspetto paradossale dei problemi che ha l’Italia: le conseguenze della crisi si sentiranno molto di più al nord, nelle aree competitive ed esposte alla concorrenza internazionale, che al sud, per il semplice motivo che il sud non ha quasi export. L’economia del sud è in gran parte basata sulla spesa pubblica e quindi gli effetti della crisi sono paradossalmente attutiti. Ma perché non esplodano è necessario che il nostro Tesoro mandi a buon fine il collocamento dei nostri titoli di debito pubblico.

Nel frattempo?

Gli imprenditori devono far fronte ad una caduta degli ordini del 30 per cento, con un aumento del 30 per cento degli insoluti perché tutti dilazionano i pagamenti. Quando poi vanno in banca è presentano i conti, la banca ha gioco facile nel chiudere la borsa. È una situazione preoccupante, nella quale è bene che il governo intervenga subito con un attento monitoraggio dell’erogazione del credito. Ma la nostra situazione è molto meno grave di quella degli altri. In caso di emergenza il maggior risparmio delle famiglie italiane potrebbe soccorrere lo Stato stesso. Negli Stati Uniti questo non è certamente possibile.