Metà dei primi cento giorni di Barack Obama è già alla spalle. Ma molti, negli Usa e non solo, hanno già liquidato la luna di miele con il presidente sbarcato a Washington con un carico di promesse e di speranze che, alla prova dei fatti, si sono infrante con una realtà che ogni giorno diventa più dura. E l’unico cambiamento visibile minaccia di essere quello del colore dei capelli di Obama, ingrigiti dalla tensione e dalle preoccupazioni. Già il benvenuto, cioè il brusco ribasso di Wall Street il giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, lasciava intendere che la comunità finanziaria non avrebbe fatto sconti al presidente. Da allora il listino azionario ha perduto il 24%. Dallo scorso ottobre ad oggi la perdita sfiora il 57%: come fa notare il Los Angeles Times, lo stesso ribasso accumulato tra il 1938 e la metà del 1942, quando l’espansione della Germania nazista e dell’impero giapponese aveva toccato il suo punto massimo.
Non va mai sottovalutato, parlando di Usa,. Questo perché, al di là delle fortune accumulate da Warren Buffett o Bill Gates, è a Wall Street che è investita la maggior parte del patrimonio dei fondi pensione, che a loro volta possono godere dell’afflusso di capitale dai lavoratori, stimolati dai benefici fiscali a costruirsi la pensione attraverso il meccanismo del K 401 (che consente di pagare le tasse sui redditi accumulati solo alla fine del piano di accumulo). Ovvero, le cadute delle Borse equivalgono ad altrettante picconate sull’attesa di reddito dei pensionati di oggi e di domani.
Il quadro, poi, peggiora se si passa all’economia reale: si va dal crollo di General Motors, ad un passo dalla bancarotta dopo aver ingoiato 42 miliardi di aiuti erogati negli ultimi mesi, al costante peggioramento del settore immobiliare. Nell’ultimo trimestre del 2008 il Pil è arretrato del 5,8%, ma la Casa Bianca fa già sapere che il primo trimestre del 2009 chiuderà peggio. Sul fronte dell’occupazione, infine, arrivano segnali terribili: -8,1% a febbraio, cioè 651 mila occupati in meno. E più dei numeri, spaventa la tendenza: a dicembre i posti perduti erano stati 591 mila, meno di mezzo milione a novembre. Dallo scoppio della crisi 4,4 milioni di americani hanno perduto il posto. E gli economisti prevedono che sarà molto difficile evitare che entro l’anno non si arrivi al record assoluto, il 10,2% di disoccupazione del 1982.
Certo, è ingiusto scaricare sulle spalle di Barack Obama una crisi che ha avuto una lunga gestazione. Il lento ma inesorabile avvelenamento a suon di assets tossici è durato almeno dieci anni. La situazione ereditata dal neo presidente è tanto grave quanto di difficile comprensione. Ma si sperava che lo shock politico del cambio di guardia a Washongton potesse innescare un processo virtuoso. O, almeno, un cambio di rotta. Non è successo. Anzi.:il trend è peggiorato. Così non pochi, da Steve Forbes su The Wall Street Journal allo stesso Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera possono accusare l’amministrazione Usa di aver interrotto la terapia precedente, adottata da Hank Paulson (basata sulla garanzia o sul riacquisto degli assets tossici da parte del Tesoro) per sostituirla con una terapia confusa: la minaccia di nazionalizzazione del sistema bancario; una serie di annunci rimasti finora nel vago; la sensazione di navigare a vista sui dossier più importanti, a partire dall’intervento sull’automobile. Cioè l’esatto opposto della materia prima chiesta dai mercati: la fiducia, l’ingrediente essenziale per riportare sui giusti binari l’economia.
Non mancano i difensori. Prendiamo l’ultima intervista di Nouriel Roubini, la Cassandra della crisi. «In sole sei settimane – dice l’economista al Time – Obama ha fatto tre cose importanti: a) il pacchetto di stimolo all’economia per 800 miliardi; b) un programma di sostegno ai mutui ben più efficace di quello della passata amministrazione; c) un piano bancario che, per quanto vago, almeno non prevede un altro sostegno agli istituti. Il bicchiere è mezzo pieno… Per quanto riguarda le banche non c’è da chiedersi se verranno nazionalizzate o meno. Ma in quale misura: vai, pulisci, ristruttura e rivendi ai privati. Non c’è altro da fare». La politica, insomma, si sta muovendo nella giusta direzione. «Ma, onestamente – conclude Roubini – non vedo all’orizzonte nulla di buono».
Può stupire che i “pessimisti” si dimostrino i più comprensivi verso il neo presidente. In parte, il fenomeno si spiega con motivazioni politiche: il fronte dei pensatori democratici, capitanato dal Nobel Paul Krugman, ha duramente contestato in questi anni le ricette dei neocon. Sull’altro versante, la decisione di aumentare le tasse ai ricchi dal 2010, quando scadranno le esenzioni a suo tempo volute da George W. Bush, ha senz’altro esasperato l’opposizione del Big Business, ancor più ferito dalla prospettiva della riforma sanitaria che inciderà sui profitti delle assicurazioni e delle grandi case farmaceutiche.
Ma al di là delle valutazioni politiche, c’è una linea di confine netta: da una parte chi c’è chi sostiene che i prezzi, vuoi delle case che delle azioni, siano ormai scesi sotto livelli innaturali, al di sotto di ogni valutazione logica. A questi prezzi, perciò, l’intervento dello Stato nel capitale delle banche o del patrimonio immobiliare da loro garantito, rischia di essere un vero esproprio. Al contrario, dicono gli altri, è tutt’altro che sicuro che tutto il marcio sia emerso dai bilanci delle banche e della Corporate America in genere. Per questo, prima di dare altri quattrini, bisogna vederci chiaro. «Per quanto riguarda le banche non c’è da chiedersi se verranno nazionalizzate o meno. Ma in quale misura: vai, pulisci, ristruttura e rivendi ai privati. Non c’è altro da fare» tuona ancora Roubini.
Chi ha ragione? L’unica cosa certa è che siamo nel bel mezzo di una guerra economica da combattere con mezzi forti. Senza cadere nella tentazione della scorciatoia protezionistica. Val la pena di tifare ancora per Obama (anche perché guai se fallisce). Ma sarà lunga e dura: non pretendiamo miracoli.