Non è difficile raccontare, in poche parole, le bellezze di Auburn Hills, Michigan. Sulla pianura svetta il grattacielo ocra di Chrysler, che domina, per chilometri, l’autostrada che da Detroit porta a Flint, il tempio di Gm. Lungo la strada, naturalmente, c’è un imponente scatolone lungo centinaia di metri che come una calamita attrae colletti blu e colletti bianchi, accomunati dalla paura della crisi: è il Wal Mart locale, cioè il grande magazzino low price che tanto spazio occupa nell’economia di milioni di Americani lontani dalle grandi città.
Chissà se Sergio Marchionne e Bob Nardelli, rispettivamente numero uno di Fiat e Chrysler, dalla finestra potranno vedere la sagoma del Wal Mart di Auburn Mills. Potrebbe essere di buon augurio, perché quella tra Fiat e Chrysler, a detta di Marchionne, dovrà essere un’alleanza Wal Mart. Ovvero, in estrema sintesi: nel mondo ci sarà spazio, tempo 24 mesi, solo per 6-7 grandi società automobilistiche. Ciascuno di questi colossi dovrà sfornare almeno 5-6 milioni di autovetture. Ma attenzione: non basta produrre tanto, occorre che ciascuna piattaforma sia in grado di sfornare e vendere non meno di un milione di vetture: ogni piattaforma, insomma, dovrà lavorare come un gigantesco grande magazzino a basso costo, un enorme Wal Mart.
Tanto per intenderci, oggi Fiat e Chrysler producono assieme più di 4 milioni di “pezzi”. Ma sia la società Usa che quella italiana dispongono di troppe piattaforme: in realtà la produzione “sana” non supera i 3 milioni di veicoli. Di qui una sfida nella sfida: tagliare gli investimenti inutili, concentrarsi sulle iniziative che promettono di più. Ottenere importanti economie di scala senza però dimenticare che il consumatore di oggi chiede prodotti personalizzati anche sullo scaffale di Wal Mart: guai a non tener conto delle varianti nelle carrozzerie o nella motorizzazione. La vera sfida consiste nel produrre milioni di pezzi eguali nella sostanza ma personalizzati in superficie. Un modello Wal Mart, dal punto di vista commerciale. Ma, dal punto di vista della produzione, “Intel inside”. Ovvero, come capita nei pc, l’anima, cioè il chip, è eguale per tutti. La differenza la fanno la carrozzeria, il design, l’assistenza e così via.
Dunque, una volta conclusa l’alleanza tra Torino e Detroit, tutt’altro che facile, il disegno di Marchionne sarebbe realizzato solo a metà: occorre correre per affrontare la stagione dei tagli. Nel mondo esiste uno sbilancio strutturale ormai non più sopportabile: gli impianti in funzione possono sfornare più di 90 milioni di pezzi, mentre la domanda non supera i 60-65 milioni di vetture. Per giunta, la nuova domanda è molto lontana dai centri di produzione del Midwest Usa o della vecchia Europa, dove sono almeno 18 gli stabilimenti a rischio chiusura.
Basta questa semplice considerazione aritmetica per capire che l’avventura americana di Fiat, pur così complessa, rappresenta solo la prima parte di un disegno più complesso. Per completare il “puzzle” sono necessarie nuove alleanze, sia sul piano geografico che per completare la gamma dell’offerta. Da questo punto di vista, è quasi impossibile non pensare al brusco licenziamento di Streiff da Psa. Il manager parigino non aveva fatto mistero di ritenere “molto difficile” un’alleanza tra Fiat e Psa. Eppure i rappresentanti delle due aziende (molto simili sul piano azionario, visto che entrambe sono controllate da accomandite delle famiglie dei fondatori) hanno a lungo trattato un’integrazione di Fiat Auto nel gruppo francese. Non solo. Il Financial Times ricorda che il nuovo pdg di Psa è l’uomo che ha venduto le acciaierie Corus a Ratan Tata, il miliardario indiano che siede nel cda Fiat e che ha appena lanciato la vettura low cost, la Nano.
È possibile sognare un’intesa a quattro di dimensioni davvero globali? Di questi tempi non si fa peccato a pensare l’impensabile. Chrysler, tanto per cominciare, non ha davvero nulla da perdere. Per quanto riguarda la Fiat, è molto probabile che la famiglia Agnelli abbia dato il mandato a sposare l’Auto, in una combinazione che veda il gruppo sotto il 50%. I vertici del Psa, dal canto loro, sono in trattative con l’altra grande zitella, la Bmw (che però punta su un matrimonio nazionale, con Daimler). Infine, indiani e cinesi puntano alle alleanze per ridurre il gap tecnologico della loro offerta.
La crisi, dunque, può accelerare un processo frenato in questi anni dal fatto che nessuno rinuncia a cuor leggero a produrre auto. Il motivo? Ogni occupato nelle quattro ruote ne porta con sé altri sette. Difficile rinunciarvi soprattutto nel mondo Wal Mart, dove l’occupazione diventa un incubo. Lo ha capito la coreana Hyundai che in America offre un’assicurazione originale: l’azienda si impegna a ricomprare, allo stesso prezzo, l’auto venduta se l’acquirente ha perso il lavoro entro 12 mesi dall’acquisto. Le vendite Hyundai sono cresciute del 14% in un mercato in caduta del 20%: Marchionne avrà concorrenti degni della sua fama.