«Ci incontreremo per prendere decisioni, non per competere l’uno contro l’altro»: così il cancelliere tedesco Angela Merkel sul Financial Times venerdì mattina. Lunedì mattina, anche il presidente americano Barack Obama, dalle stesse colonne della “gazzetta della City”, si è subito augurato che dal G-20 di Londra esca «un messaggio di unità»: ben diverso dal fallimentare vertice britannico del 1933 che fu addirittura disertato dal neo-eletto Franklin Delano Roosevelt.



Eppure la dialettica tra la (vecchia) Europa di Frau Merkel e la (nuova) America di Mister Obama è già il filo rosso del summit. E le bizze di Monsieur Sarkozy – che ha già minacciato di abbandonare i lavori del G-20 se non si profileranno «decisioni concrete» – confermano la centralità del confronto tra Usa e Germania, i cui leader si misureranno domani a Londra sulla crisi economico-finanziaria, poi nel bilaterale di Baden sui dossier militari Nato e infine a Praga, al termine dell’Obama-tour, nella tappa più squisitamente geo-politica, ospitata dalla presidenza ceca della Ue.



Ma è indubbio che sarà il faccia faccia “in pubblico” di domani all’Excel Centre il test più importante. E non a caso sia Obama che la Merkel hanno deciso di prepararlo attraverso la finestra del “quotidiano dei mercati”. Deludendo forse quanto si aspettavano ricette tecniche e rimescolando invece volutamente due temi che sia nel dibattito tra economisti che nelle stanze dei bottoni governative sono sempre più spesso tenuti distinti: forse altrettanto volutamente.

Il risanamento dei mercati finanziari – e in particolare del sistema bancario – tende ormai a essere considerato un momento autonomo rispetto alla lotta alla recessione attraverso le politiche di stimolo. In realtà proprio le mosse dell’amministrazione americana – prima con Bush e Paulson al Tesoro, poi con Obama alla Casa Bianca e Geithner – hanno utilizzato il timone di un piano in fondo sempre unico per virare continuamente tra “pulizia degli asset tossici”, “nazionalizzazione del sistema bancario”, “aiuto pubblico ai grandi gruppi industriali”, “stimolo all’economia” e “sostegno alle famiglie”. È stato fatto di tutto un po’, ma niente ancora di definitivo in alcun ambito e senza scegliere una direzione prioritaria: salvo fondere tutto in un budget da 3.600 miliardi di dollari che secondo FT «toglie il respiro» e ha fatto gridare al «socialismo» i commentatori più liberisti e conservatori.



La Germania, invece, ha convogliato centinaia di miliardi di euro sul salvataggio e la ricapitalizzazione dei gruppi creditizi e sulla garanzia pubblica dei depositi bancari. La grande coalizione a guida democristiana (in scadenza elettorale) continua invece a guardare con scetticismo a politiche keynesiane di deficit spending. La Merkel a FT ha detto chiaramente: la Germania è un paese «super-indebitato» (anche per aver salvato le banche travolte dalla crisi derivati e subprime) ed «export-orientend», con una popolazione che sta invecchiando e declinando. Non possiamo permetterci di spingere il consumo a spese delle esportazioni.

C’è l’eterno riflesso tedesco contro qualsiasi lassismo inflazionista? In parte sì, come si è visto dal continuo ritardo con cui la Bce ha utilizzato – rispetto alla Fed – la leva monetaria. Ma non solo, anzi. La “headline” del G-20, secondo il cancelliere tedesco, è «rimettere l’economia mondiale in piedi in modo tale da prevenire nuove crisi». E questo, in particolare, significa azioni più pesanti sulla future regolazione finanziaria.

Lo schema interpretativo è chiaro: la recessione economica è un effetto della crisi finanziaria, cioè dell’incapacità dei mercati e delle banche di mantenere le proprie dinamiche in equilibro. Bisogna incidere sulle cause, cioè riattivare il sistema finanziario dotandolo però di “tutor” e “antivirus” che impediscano tutti gli eccessi e gli sbilanciamenti drammaticamente emersi: i subprime (cioè la concessione di credito a chi non lo meritava); i derivati (l’utilizzo troppo rischioso e poco trasparente di risparmio); i bonus e le stock-option (cioè i meccanimi retributivi che scoraggiavano la prudenza e incoraggiavano l'”azzardo morale”).

È ovvio che la ricetta tedesca (europea) piaccia poco a Wall Street e in generale a un’America che vorrebbe dimenticare in fretta il crack Lehamn Brothers e tutto il resto. Più facile annegare la crisi bancaria (con motivazioni, responsabilità e terapie precise) in una generale “recessione globale” nella quale la ricetta unica è «rompere i vincoli su deficit e debito» e i sacrifici vengono ripartiti in modo indiscriminato (o addirittura iniquo) esattamente come fino all’autunno scorso sono stati “sparsi” i rischi finanziari.

Obama si trova tra l’incudine tedesca e il martello di Wall Strret, ma l’apparente attendismo dell’intervista al Financial Times segnala relativa tranquillità. Probabilmente – come ha già previsto lo stesso premier ospite, il britannico Gordon Brown – ci sarà bisogno di un terzo G-20 entro fine anno. Allora forse, sarà possibile capire chi ha vinto nel braccio di ferro “regulation versus stimulus”; o, meglio: in che termini la politica (a cominciare da Obama e Merkel) è riuscita da gestire le varie spinte. Quelle della “gente”, che vuole ripresa “ma anche” sanzioni per i banchieri del passato e garanzie su quelli del futuro; e dei banchieri, che non vogliono tornare alle velocità limitate della “old finance” e vogliono far pagare ai bilanci statali e quindi ai contribuenti i costi della crisi passata e il riavvio dell’economia.