Questa notizia difficilmente troverà molto spazio sui giornali, impegnati come non mai a rendere conto del populismo da quattro soldi di chi sa solo dare addosso al libero mercato. In tempi di manager presi in ostaggio e proteste di massa contro il G20, nessuno infatti si impressionerà per il fatto che ieri Porsche abbia annunciato un introito netto di 9 miliardi di dollari dalle sue stock options su azioni Volkswagen e che, soprattutto, la Bafin – l’ente regolatore della Borsa tedesca – abbia scagionato la stessa Porsche dall’accusa di turbativa del mercato nell’operazione compiuta lo scorso ottobre proprio sul flottante di azioni Volkswagen.



Ricapitoliamo un attimo l’accaduto. Il rally che portò Volkswagen a divenire all’epoca la prima azienda al mondo per capitalizzazione fu infatti il frutto di un balzo in avanti del titolo – che sfiorò i 1000 euro ad azione – dovuto oltre che all’annuncio di Porsche di voler salire fino al 75% del capitale entro quest’anno anche dalla corsa alla ricopertura – ovvero alla chiusura della posizione – da parte degli hedge funds che avevano scommesso sul ribasso dell’azienda tedesca. Un bel guadagno per Porsche e anche per il governo della Bassa Sassonia che infatti detiene il 20% di Volkswagen.



Inoltre la cavalcata del titolo della casa di Wolfsburg non fu dovuta solo all’attivismo di Porsche ma anche al fallimento di Lehman Brothers, avvenimento che ha imposto a numerosi hegde funds lo smontamento delle proprie strategie di naked short (la pratica di vendita a breve, senza prima avere le azioni o assicurarsi che le stesse possano essere prese in prestito: quando il venditore non ottiene le azioni entro il lasso di tempo si ha il cosiddetto “fail to deliver”). Andando in amministrazione controllata Lehman Brothers, attivissimo sul titolo Volkswagen, chi vendeva in naked short si è trovato nella condizione di un possibile “fail to deliver” perché non c’era nessuno che gli prestasse le azioni: risultato, tutti sul mercato a comprare a qualsiasi prezzo.



Scommesse, quelle dei ribassisti, nemmeno tanto folli visto che il 22 maggio scorso Morgan Stanley aveva tagliato il rating su Volkswagen rivedendo al ribasso il target price del titolo da 165 euro a 141. Poi, il miracolo che ha portato il titolo artificialmente a crescere di dieci volte. Un miracolo sapientemente costruito sulla fine dello scorso settembre con continue voci di passaggio del management di VW a Porsche (messe in circolo a Borsa aperta e sempre smentite a Borsa chiusa), strani sobbalzi del titolo e il silenzio delle istituzioni: non è un caso che il colpo di teatro di Porsche si sia materializzato proprio a ridosso della scadenza dei contratti a tre mesi, quando o ci sono le azioni o bisogna trovarle a qualsiasi prezzo.

Peccato che se la Bafin ha assolto il gioiello nazionale, sarebbe forse il caso che l’antitrust europea desse una bella occhiata a quanto accaduto in quei fatidici giorni di ottobre al Dax di Francoforte. E, magari, che l’Ue chieda lumi al Bundestag. Lo scorso 20 settembre, infatti, la cancelliera Angela Merkel disse di essere «pronta a fare qualsiasi cosa per sostenere la Volkswagen» e che l’intero governo la pensava come lei. Et voilà, ecco quindi il governo spingere per la “legge Volkswagen”, provvedimento che prevede per le decisioni strategiche della casa automobilistica la possibilità di veto da parte della Bassa Sassonia che detiene una quota del 20% delle azioni, pari alla minoranza di controllo. La Commissione europea ha già fatto ricorso contro la Germania davanti alla Corte europea di giustizia per ottenere l’abolizione della norma ma tant’è. Porsche si è sentita garantita da Berlino e l’operazione – negata con decisione fino a non più tardi del mese di giugno – è divenuta di colpo realtà.

Un’operazione di pura finanza visto che l’attuale Eps di Volkswagen (Earnings per share, il metodo tradizionalmente utilizzato per la determinazione del valore di un’azienda) è di 10,5 e quota un prezzo del titolo che per essere giustificato dovrebbe garantire gli stessi utili per azione fissi e costanti (o maggiori) per i prossimi 60 anni. Valori lunari, del tutto slegati dalla realtà: insomma, l’ipersolvibilità e l’ipercapitalizzazione di Stato rischiano di far più danni della crisi ma nessuno sembra interessarsene. Se la speculazione è statale, nessuno si scandalizza.

E la cosa non stupisce, visto che l’eroe del giorno per molti è diventato il presidente francese, Nicolas Sarkozy, il quale alla vigilia del G20 minaccia di far saltare in aria il vertice se non saranno adottate misure concrete per rilanciare l’economia globale: «Non ci sarebbe niente di peggio di un G20 di basso profilo, preferisco una rottura a un consenso minimalista. Se a Londra non ci saranno progressi, ci sarà una sedia vuota! Mi alzerò e me ne andrò!».

Sacrosanto, peccato che il pomo della discordia oggi verta non sui pacchetti di stimolo e di spesa – già accantonati – ma sull’arduo dossier della regolamentazione finanziaria e dei paradisi fiscali, due temi sui quali il furbo Sarkozy intende agire concretamente per riprendere un po’ di appeal in patria, percorsa di scioperi sempre più duri. Più Stato, più regole, più gabbie, meno mercato: se questo è il mondo che dovrebbe emergere dalle macerie della crisi prepariamoci al peggio.

Senza hedge funds non solo si creerà molta meno ricchezza ma si capitalizzeranno meno le piazze borsistiche, si truccheranno più bilanci, si sovradimensioneranno aziende e titoli visto che lo shorting diverrà sempre più difficile se non vietato e si perderanno posti di lavoro. Inoltre, l’idea stessa di liberismo e responsabilità andranno in soffitta a causa dell’enorme cappa statalista che tutto controllerà e tutto deciderà.

Può sembrare folle un’argomentazione simile in tempo di crisi, ma non sono stati né gli hedge funds né gli speculatori a scatenare l’inferno in cui viviamo bensì la politica monetaria della Fed, l’adozione di enti parastatali come Fannie Mae e Freddie Mac, la folle bolla immobiliare creata dall’egualitarismo creditizio e dal clintonismo del credito facile oltre a quella garanzia implicita fornita proprio dai governi alle istituzioni creditizie del cosiddetto “too big to fail”, un invito all’irresponsabilità e al rischio. Spiace dirlo ma facendo ricorso alla categoria dell’onestà intellettuale non si può non convenirne: difficile lo faccia Nicolas Sarkozy, novello capopopolo cui il caso Porsche-Volkswagen sembrerà certamente edificante.