Iniziato con i migliori auspici, e sotto la doppia ispirazione della filosofia Usa e di quella europea per la lotta alla crisi economica, ossia politiche di stimolo e regole finanziarie, il G20 del 2 aprile scorso si è concluso con la volontà di dar vita ad un sistema di finanza internazionale temperato da regole più equilibrate e con il maxi stimolo di mille miliardi di dollari, dei quali 250 andranno in quota al Fmi come diritti speciali di prelievo e 750 a disposizione del rafforzamento del Fondo monetario stesso, da parte dei vari paesi. Non solo. Il summit ha annunciato misure drastiche contro i paradisi fiscali. Non è una novità, in effetti; ma hanno fatto notizia il generale consenso dell’iniziativa e il lavoro dell’Ocse per approntare subito una “lista nera” degli stati off-shore. L’obiettivo? Vincolarli ad uno scambio di informazioni sulla base di standard internazionali e recuperare la liquidità che il sistema finanziario parallelo sottrae ai grandi stati colpiti dalla crisi. Tutto sta nel capire se la notizia del recente svuotamento della lista nera, in favore di una “lista grigia” segnata dall’accettazione di più stringenti parametri di trasparenza, sia un vero risultato oppure non sia nient’altro che un’operazione virtuale destinata a risolversi, come è stato in passato, in un nulla di fatto. Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Donato Masciandaro, direttore del dipartimento di Economia dell’Università Bocconi di Milano.
La lotta ai paradisi fiscali fa parte degli accordi che hanno concluso il summit di Londra. Quali novità dobbiamo attenderci?
Al momento il disegno di una politica di maggior coordinamento in termini di politiche fiscali, e quindi una maggiore attenzione ai cosiddetti paradisi, è tutta sulla carta. Non c’è nulla di concreto. Alcuni datano l’esistenza dei paradisi fiscali al 1860. Difficile farli sparire: è sempre esistita la convenienza dei grandi Stati a consentire l’esistenza di Stati più piccoli che avessero dei regimi fiscali meno stringenti.
A chi conviene l’esistenza dei paradisi bancari e fiscali, in particolare?
Alle parti più ricche delle popolazioni dei grandi Stati. Ecco perché devo dire che, dal mio punto di vista, il G20 non ha fatto proprio nulla. Negli ultimi vent’anni credo di aver visto più di una volta dichiarata la cosiddetta guerra ai paradisi fiscali, ma poiché, dichiarazioni a parte, non l’ho mai vista, mi permetta di rimanere scettico. Naturalmente mi auguro di sbagliarmi.
Nel frattempo l’Ocse ha predisposto delle liste, legate a criteri oggettivi e fondate sulla trasparenza da parte dei paesi “colpevoli”. L’ipotetica scomparsa dei centri finanziari off-shore sarebbe in grado di rendere il sistema finanziario più stabile o no?
Ma stiamo parlando di qualcosa di paradossale, che non si verifica. Come se parlassimo della pioggia che va verso il cielo. Sono anni che assistiamo alle stesse dichiarazioni; quando vedremo la messa in atto di politiche concrete verso i paradisi fiscali, allora cambieremo idea. Sono state definite le liste nere? Non è la prima volta. Ora una domanda la faccio io a lei: cosa succede per un paese ad essere in una lista nera?
A parte l’inserimento in una “lista grigia”, nella quale si sono ora ritrovati tutti i 42 Stati provenienti dalla lista nera che l’Ocse ha svuotato, nulla direi.
Esatto. L’inserimento nella lista dovrebbe corrispondere al classico metodo dissuasivo del bastone e della carota: avere svantaggi ad essere nella lista e avere vantaggi ad uscirne. Ma non è mai successo nulla, perché i paesi nelle liste nere non hanno mai visto cadere i loro flussi di capitale. Anzi: è perfino accaduto che qualche volta la lista abbia sancito uno status. Cioè essere nella lista ha significato per un paese quasi dimostrare di avere una patente, di essere un centro particolarmente impenetrabile, ovvero particolarmente vantaggioso. Quindi è uno strumento disegnato senza che ne vengano tratte le relative conseguenze: penalità per chi è dentro e premi per chi è fuori.
Strumenti dissuasivi o di recupero del capitale attraverso uno scudo fiscale come quello ipotizzato da Tremonti nel 2001, basati sull’interesse del singolo Stato a recuperare i capitali sono riproponibili o no?
I provvedimenti cosiddetti di tax amnesty dovrebbero essere usati una volta sola e basta: si fa prima l’amnistia e poi un sistema più severo. Ma sarebbe già la terza edizione. No, è un metodo che non è sembrato particolarmente efficace.