Londra. Meno di un chilometro. È questa la distanza che divide la stazione della metropolitana di Mansion House dalla Bank of England, poche centinaia di metri che da ieri sono l’epicentro della protesta contro il G20 ma soprattutto contro banche e banchieri, novelli spauracchi che nell’immaginario collettivo dei no global hanno sostituito l’ormai desueta globalizzazione.
Erano circa 3mila a bloccare il traffico nell’ultima parte di Queen Victoria Street, ventitre dei quali hanno terminato anzitempo il loro happening nelle camere di sicurezza della stazione di polizia di Paddington. Tra loro e l’odiata “Old Lady”, così gli inglesi chiamano la Bank of England, decine e decine di agenti di polizia in assetto anti-sommossa che dopo aver usato il guanto di velluto a inizio mattinata, dall’ora di pranzo hanno cominciato a menare vigorose manganellate che hanno sortito l’effetto sperato: traffico in tilt, qualche coro minaccioso ma nessun’altra violenza.
Già, perché prima di essere ricondotti a una sorta di declinazione della ragione, i manifestanti avevano issato striscioni sula facciata della Bank of England e soprattutto sfasciato alcune vetrate di una filiale della Royal Bank of Scotland – madre di tutti gli scandali perché, nonostante sia stata nazionalizzata al 65% per evitare il fallimento, ha visto il suo ex presidente andarsene via con un vitalizio da nababbo che ora il governo sta cercando di togliergli – e vandalizzato gli uffici lanciando fumogeni, uova e sedie.
Ma i veri protagonisti di questa meravigliosa giornata di sole, benedetta da una brezza fresca che annunciava la primavera lungo il Victoria Enbankment e il Tamigi blindato come non mai, sono stati loro, i lavoratori della City, un esercito di trader, broker, analisti che in ossequio alle direttive di sicurezza emanate dalle varie aziende hanno rinunciato al consueto look formale per non essere riconoscibili optando per camicia e blue jeans.
Scendendo dalla metropolitana a Tample o attraversando il London Bridge lo spettacolo era surreale, tipico di certi telefilm britannici dall’ironia pungente e parossistica: va bene essere cauti ma alla ventiquattro ore non si rinuncia, sembravano dire inorgogliti e feriti allo stesso tempo. Quindi ecco avanzare un esercito di perfetti cittadini pronti allo shopping del sabato pomeriggio con borsa nera di pelle in mano e il Financial Times arrotolato e nascosto nelle tasche posteriori dei pantaloni.
Nessuno ha subito violenze, sono bastate le intimidazioni verbali e gli insulti: tanti, forti ma soprattutto gratuiti. Come possa, infatti, un trader di 35 anni essere comparato a Bernard Madoff o al management di Aig o Lehman Brothers è mistero che solo una mente obnubilata dal massimalismo può spiegare. Ma tant’è, lungo quelle poche centinaia di metri, tra bandiere nere con la “a” cerchiata di anarchia e felpe con cappuccio per travisare il viso, tutta l’erba era davvero un fascio: le banche sono il male, le strade sono nostre.
Già, perché lo slogan più scandito era proprio “Our streets”, un’appropriazione del territorio che è disconoscimento di qualsiasi autorità, sia essa politica, economica o morale. Le parole d’ordine sono sempre le stesse: rivolta, lotta di classe, attacco alle multinazionali, nichilismo e posa patibolare come soluzione prêt-a-porter di tutte le emergenze. Un esercito di ventenni con la testa voltata all’indietro e i pensieri fermi come un orologio rotto. Per scelta, non per un incidente.
E i londinesi questo lo hanno capito. Colpiti duro da una crisi che non pensavano così lunga e cattiva, mentre li si incrociava intenti a entrare nella fermata di Mansion House per trovare una strada alternativa verso il lavoro o casa, dichiaravano al mondo il loro stato d’animo: come si può rispondere alla crisi, alla disoccupazione, non permettendo a chi ancora ha un lavoro di poterlo svolgere e contribuire a far ripartire l’economia per il bene di tutti? Pensieri semplici, borghesi per i maestri della rivolta, novelli Marcuse intenti a bloccare e distruggere per conclamata incapacità di creare qualcosa ma comunque sia maggioritari, diffuse e condivisi: donne, uomini, taxisti dalle braccia tatuate che avrebbero volentieri sgomberato le strade a modo loro se questo non avesse comportato guai peggiori della crisi.
Tutto sommato, nonostante i tombini bullonati, i cecchini sui tetti, gli elicotteri nel cielo e la polizia presente in massa come solo dopo gli attentati del 7 luglio, quella di ieri è stata una bella, bellissima giornata di speranza: i 3mila vandali sono rimasti tali, la gente vera, i lavoratori, i disoccupati, gli impiegati part-time e interinali, gli spazzini e i distributori di free-press proseguivano la giornata come se niente fosse: lavorando o cercando un lavoro, non arrendendosi alla paura né alla facile e comoda demagogia del “è tutta colpa loro”.
Questi ragazzi, sguardi truci per spaventare la loro stessa paura di affrontare pregiudizi e stereotipi, non sono squatter qualsiasi: la maggior parte di loro sono universitari, molti dei quali facenti parte del sindacato studenti della London School of Economics, fucina del capitalismo progressista lentamente trasformatasi in una sorta di enorme contenitore di belle speranze a prezzo di discount.
Forse questo deve fare più paura della crisi, forse questo dà la misura reale di quanto resti da fare e di quanta fatica questo costerà: poco male, Londra ha saputo nella migliore delle ipotesi ignorare il disfattismo annidato in quelle poche centinaia di metri mentre nella peggiore ha inveito contro chi rema contro il paese e non le banche. Le quali, comunque sia, non possono e non saranno fatte fallire.
Verso le quattro, quando il sole scaldava il viso e si cominciavano a vedere ragazzini con la maglia della nazionale avviarsi verso lo stadio per la partita di qualificazione contro l’Ucraina, la scena più bella di tutta la giornata, quella che nessun giornale sottolineerà perché il populismo rende più del realismo cocciuto del fare: le grida “our streets, our streets” tornano a sovrastare il rumore dei clacson, la sede di Hsbc resta blindata e protetta da agenti e camionette, la tensione è palpabile.
Di colpo, urla, insulti, rabbia becera che trasuda e avvelena come vino cattivo: due impiegati, camicia coi gemelli e cravatta regimental, si affacciano dal quarto piano dell’edificio quasi a sfidare la folla. Quasi a dire, a rivendicare con orgoglio misto a esasperazione, “la colpa della crisi non è mia”. Anzi, io sto lavorando per uscirne e per farne uscire anche il paese. Voi compresi. È stata, danni e feriti a parte, una bella giornata. Una di quelle che ridà un po’ di coraggio e speranza, come il cielo azzurro di Londra che accarezza quei moscerini di metallo che lo solcano regalando alla City un’atmosfera irreale. E a noi, la voglia di guardare avanti. Nonostante tutto.