Uno dei problemi principali dell’Italia, tanto più in un periodo di crisi come questo, è l’incapacità di saper attrarre investimenti esteri; questi sarebbero utilissimi a sviluppare l’economia e a creare posti di lavoro. Una delle condizioni necessarie ma non sufficienti per riuscire a fare entrare fondi esteri è un sistema di regole certo. Nel nostro paese, purtroppo, la regolamentazione è troppa e troppo variabile. Certo l’incapacità di attrazione di investimenti diretti esteri non deriva da solo un problema, ma questa debolezza appena sollevata è molto importante.



Il caso Alitalia forse raggruppa tanti dei motivi per i quali anche l’Olanda, la quale ha un’economia pari a circa un quarto di quella italiana, riesce a superarci in termini di flussi di investimenti esteri annuali. La privatizzazione del vettore, ancora sotto il Governo Prodi, nacque malamente a fine del 2006; le frange di sinistra dell’allora maggioranza di Governo, cercarono di imporre la clausola dell’italianità. Questa limitazione fece scappare lentamente un po’ tutti gli investitori e dopo oltre un anno di gare andate a vuoto e dopo la caduta del Governo di centrosinistra di inizio 2008, si arrivò alla campagna elettorale.



La capacità dell’attuale premier Silvio Berlusconi e la debolezza del centrosinistra, fece sì che l’argomento principale della campagna elettorale diventò Alitalia. L’italianità rimase tuttavia uno dei prerequisiti di vendita e gli investitori internazionali ebbero paura a entrare realmente nel processo di vendita, anzi scapparono. L’esito è ormai conosciuto a tutti: a fine agosto dello scorso anno Alitalia ha portato i libri in tribunale e con una vendita privata alquanto dubbia, i “capitani coraggiosi” riuscirono ad acquistare le ceneri della defunta compagnia.

Tale esito tuttavia è stato alquanto critico non solo da un punto di vista di spreco di denaro pubblico (la compagnia sarebbe dovuta fallire qualche anno prima), ma ha provocato un cambiamento continuo di regole. La legge 166 del 2008 ha modificato la normativa delle fusioni aziendali, impedendo all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato di intervenire in caso di posizioni di monopolio venutesi a creare in seguito a dei merger.



Questo cambiamento di normativa è significativo, ma forse è ancora più significativo quanto è successo agli obbligazionisti di Alitalia, che è sempre stata una compagnia governata dal Ministero dell’Economia e la cui responsabilità della gestione è dunque imputabile ai diversi Governi che si sono succeduti nel corso degli anni.

È da rimarcare che gli oltre 5 miliardi di perdite della compagnia sono stati coperti da una perfetta azione di ricapitalizzazione pubblica bipartisan: dei 4 miliardi di denari versati dai contribuenti italiani, due sono arrivati dal centro-destra e due dal centro-sinistra. La ricapitalizzazione sotto la gestione aziendale dell’amministratore delegato Francesco Mengozzi venne fatta anche tramite l’emissione di obbligazioni convertibili dalla durata quinquennale. Nel 2002 si emise questo nuovo debito per 715 milioni di euro che sarebbero dovuti essere rimborsati nel 2007; tuttavia nel 2005, l’allora amministratore delegato di Alitalia, Giancarlo Cimoli, decise con il beneplacito del Ministero del Tesoro di prolungare la durata del prestito di tre ulteriori anni, in cambio di un aumento del tasso d’interesse. Lo Stato dunque ha deciso di allungare il prestito ad Alitalia e lo stesso Stato tre anni dopo fece fallire l’azienda tramite una gestione fallimentare.

In questi giorni si sente spesso dire che verrà rimborsato il 50%, ma molto probabilmente non verrà recuperato dai creditori più di un quarto dei soldi investiti. Il cambiamento di regole ancora una volta ha creato un danno irrimediabile per circa 40 mila piccoli investitori, oltre che agli investitori istituzionali; dato che il 62% dei “Mengozzi Bond” sono in mano al Ministero del Tesoro l’allungamento del prestito ha provocato uno spreco di denaro pubblico per oltre 400 milioni di euro che i contribuenti italiani hanno buttato “nel pozzo senza fondo” Alitalia.

Se il danno pecuniario è grande, è ancora più rilevante il danno provocato alla credibilità dell’Italia. Se per il caso Alitalia si parla di qualche centinaio di milioni di euro, il cambiamento della normativa provoca ogni anno il mancato afflusso di miliardi di euro di investimenti esteri che sono causa, a loro volta, di migliaia di posti di lavoro in meno. Il caso Alitalia dimostra che servirebbero poche regole ma certe e dimostra come lo Stato imprenditore possa portare un’enorme distruzione di risorse pubbliche.