Hanno fatto scalpore i dati del Fmi, che calcola in 4mila miliardi di dollari le perdite del sistema finanziario globale, dice all’Europa di essere in ritardo con le misure di sostegno e all’Italia di aspettarsi un aumento folle del suo debito pubblico, stimato per il 2010 al 121% del Pil. Ma sono numeri che non convincono del tutto l’economista Francesco Forte, che conferma: «i nostri sono segni di crescita e stiamo recuperando».



Professore, i dati rilasciati dal Fmi sono fortemente negativi. Una doccia gelata per la fiducia che prima le parole del ministro Tremonti, poi quelle di Marcegaglia e infine i dati del Centro studi di Confindustria hanno diffuso, pur con la dovuta prudenza, negli ultimi giorni.

Le stime del Fondo monetario sono dati aggregati, in un modo che fa perfino dubitare della sua buona fede. Per comprenderli li dobbiamo “disaggregare”. Perché quei 4000 miliardi di dollari di debiti, ovvero il costo stimato della crisi, riguardano essenzialmente i paesi che hanno vissuto al di là dei propri mezzi, per esempio in una situazione del tutto anomala come quella degli Usa, dove le famiglie avevano ormai un debito che superava il loro reddito.



Stiamo attenti, dunque, a calcolare le perdite del mondo, perché non tutti hanno uguali responsabilità. È così?

All’origine della depressione stanno i paesi – e agli Usa bisogna aggiungere la Gran Bretagna e l’Irlanda, in misura minore certi paesi europei – in cui l’illusione di una ricchezza puramente monetaria o bancaria ha gonfiato enormemente la finanza. Con ciò creando enormi problemi per il futuro. Noi siamo vittime, anche se lo siamo di meno, cioè nella misura in cui la nostra economia reale ha subito le conseguenze della crisi finanziaria.

I dati positivi che riguardano la nostra economia si accompagnano a ben vedere ad un rallentamento dei segnali negativi che provengono da altre economie, come quelle di Germania, India e Cina.



Quando ci sono segnali positivi occorre, anche in questo caso, distinguere. Essi provengono da una certa parte virtuosa del mondo, quella dove si risparmia: in modo collettivistico e forzato in Cina, in modo non collettivistico ma in parte primitivo in India, poi in Germania, in Italia, in Francia e in genere nella parte continentale dell’Ue.

In una parola: la nostra, a suo avviso, è una ripresa reale o no?

Sono segni di crescita e noi stiamo recuperando. Siccome però il sistema bancario e finanziario mondiale era in gran parte costituito da strutture bancarie dei due grandi mercati di Wall Street e di Londra, nonostante che le nostre banche siano sane, che quelle tedesche siano anch’esse generalmente solide tranne qualche caso, idem per la Francia, per noi il recupero non sarà così facile. Proprio perché il sistema bancario mondiale è gravemente ferito, per l’interdipendenza che lo governa ne subiremo gli effetti.

L’altro dato allarmante diffuso dal Fondo monetario riguarda l’incremento verticale del debito pubblico. Le stime per l’Italia lo danno al 121% del Pil nel 2010. Che ne pensa?

Il debito pubblico italiano potrà aumentare ma non in modo significativo. Poiché il Pil monetario, anche a causa non della deflazione, che da noi non c’è, ma della riduzione dei prezzi si è ridotto – sia negli anni in cui c’era ancora una certa crescita, sia negli ultimi anni, in cui abbiamo avuto una decrescita del Pil – il debito tenderà ad aumentare, anche se il disavanzo non sarà accentuato.

Quindi il nostro rapporto debito/Pil, a suo avviso, non dà motivo di particolare preoccupazione…

No, per il modo in cui il governo sta gestendo la situazione, senza cioè fare spese insensate. C’è un maggiore disavanzo derivante dagli ammortizzatori sociali, tutto il resto del disavanzo deriva dal declino delle entrate, quindi è temporaneo, ma anche gli ammortizzatori sociali lo sono e perciò non è un fatto strutturale. Il debito potrà aumentare ma rimarrà un debito “pagabile”.

Non siamo quindi sottoposti al rischio inflazionistico cui vanno incontro gli Stati Uniti, richiamato da Martin Feldstein?

No perché l’area euro ha adottato una politica di carattere fiscale e monetario molto diversa. Il cambio dell’euro rimarrà piuttosto sostenuto e in fase di ripresa questo sarà un vantaggio, soprattutto per quanto riguarda il prezzo delle materie prime. E non aver pompato denaro in eccesso consentirà di avere un basso tasso di inflazione.

Dobbiamo aspettarci dei rischi dai paesi dell’Est Europa?

Quelli dell’Est Europa sono paesi per i quali i problemi che possono sorgere derivano dal ritiro di capitali da parte nostra. Quindi è una nostra responsabilità, come ha detto di recente anche il presidente della Bundesbank, quella di mantenervi il credito. Sono paesi in via di sviluppo, che non hanno fatto errori tranne quelli che hanno seguito di più il modello anglosassone, come Estonia e Lituania. Gli altri, come Polonia, Ungheria e Romania sono una grande risorsa per il nostro commercio estero.

Nessun timore dagli investimenti delle nostre banche come UniCredit nei paesi dell’Est?

Effettivamente qualche fattore di preoccupazione esiste ma il ritiro dei capitali ha riguardato più le banche americane delle nostre. Ma sono problemi temporanei e il Fmi intende agire dove necessario. Anche gli Usa sono interessati a che questo accada perché l’Est europeo è una vetrina importante dell’economia non collettivista.

Intanto soffriamo la crisi della domanda estera. L’Italia è un paese troppo dipendente dalle esportazioni?

L’Italia come la Germania, più della Francia, è un paese che per sua natura deve esportare, perché è importatore di materie prime e di trasformazione industriale. Si sente dire che Italia o Germania non dovrebbero dipendere troppo dal commercio estero, ma è una sciocchezza. Non dimentichiamo che noi non abbiamo il surplus del Giappone o della Cina e che con l’export abbiamo pareggiato la bilancia dei pagamenti. Dobbiamo a maggior ragione individuare nuove aree: nuovi paesi dell’area euro ma non ancora integrati in essa, poi guardare di più verso India, Russia e Sudamerica.

Mentre attendiamo la ripresa della domanda estera, che cosa facciamo? È il discusso tema della crisi come opportunità per introdurre riforme strutturali.

Una cosa che si può fare è quella di aumentare la nostra produttività e la nostra capacità di sviluppo mediante politiche dedicate alle infrastrutture. Manca una “liberalizzazione” degli enti locali, che sono un intreccio enorme di inefficienza. Ci sarebbe da fare, in sede europea, una vera liberalizzazione agricola, ma nessun ministro dell’Agricoltura italiano sembra disposto a farla, perché tutti guardano la nostra agricoltura con una lente protezionistica. La riforma che Sacconi deve fare è la controriforma del mercato del lavoro. Il nostro mercato del lavoro va bene così com’è, col sistema duale o plurimo e il motivo è molto semplice: perché siamo in una economia di mercato. Insistere sul contratto unico non ha senso, è una posizione pseudo liberista e dirigista. Poi c’è la riforma del sistema pensionistico… Come vede, di cose da fare ce ne sono e l’agenda è piena.